Spettacolo andato in scena il 27 febbraio 2014 al Teatro Solvay di Rosignano Solvay (LI)
A cura di Giulia Santi e Giada Baicchi
Recensione
Arpagone è l’avaro per antonomasia, l’avarizia in persona. Non tanto e non solo perché non spenderebbe mai un quattrino, quanto piuttosto per la limitatezza dei suoi sentimenti, l’invincibile impossibilità di sprecare la sua attenzione per qualcosa che non giovi al suo interesse. E Arpagone, nella commedia diretta da Claudio Di Palma per la produzione Bon Voyage, è interpretato dal magistrale Lello Arena, che propone al pubblico un personaggio ricco dell’espressività comica della macchietta e insieme della tragicità di un animo tormentato.
La storia e le battute sono, con qualche variante, le originali della commedia di Molière, a sua volta ispirata alla Pentola d’oro di Plauto: Cleante, figlio di Arpagone, si innamora di Mariana, una giovane piena di qualità ma senza alcun bene; anche suo padre si invaghisce di lei e prospetta per sé un matrimonio con la ragazza, mentre vorrebbe far sposare al figlio una ricca vedova. Anche la figlia Elisa è promessa sposa ad un buon partito, Anselmo, ma lei è invece innamorata di Valerio che si finge valletto di Arpagone per starle accanto. I figli si trovano costretti ad agire alle spalle del padre per far valere i loro sentimenti, e la sorte li spalleggia con un’agnizione finale che risolve ogni questione.
Con un cast di otto attori (Fabrizio Vona, Francesco Di Trio, Giovanna Mangiù, Gisella Szaniszlò, Eleonora Tiberia, Fabrizio Bordignon, Enzo Mirone) e personaggi ridotti rispetto alla fonte, L’avaro di Molière coglie l’essenziale e arricchisce l’esperienza teatrale con elementi metaforicamente forti, primo fra tutti la scenografia. Alcuni elementi spiazzano e confondono il pubblico: le acrobazie del valletto Freccia, il dialetto di Arpagone, la bizzarria dei costumi. Tuttavia il testo non perde di forza, anzi ne guadagna grazie a una sorta di proprietà di astrazione che allontana i personaggi da un lontano salotto di fine seicento e li pone in un qui e ora senza tempo. Colpisce inoltre la potenza di alcuni momenti nei quali la violenza – della rabbia, delle passioni – è resa in scena con un immobilità densa ed inquietante. In particolare il finale, che in una resa tradizionale avrebbe comportato un susseguirsi di entrate e uscite, un climax ascendente di battute, colpi di scena e situazioni, è in questo spettacolo congelata in un unico, immobile quadro surreale in cui ogni personaggio prende parola dal suo posto e assiste noncurante alla tragedia di Arpagone – variante non da poco rispetto al testo di Molière – che si consuma davanti ad un’indefinita entità giudicante. (G. S)
Appunti tecnici
Il luogo in cui si svolge la commedia è del tutto atemporale, la storia si svolge in uno spazio irreale caratterizzato da una scenografia composta da una serie di teche dove sono esposte in bella mostra una serie di sedie di ogni epoca e stile. Come in un museo. Il collezionare sedie diventa come un’altra declinazione dell’avarizia, del possedere qualcosa in modo ossessivo. Le sedie rimangono lì, rinchiuse in queste vetrinette ad assistere impotenti alle vicende che si susseguono nella storia, diventano spettatori inermi ed invisibili su cui gli ospiti ed i vari personaggi non potranno mai sedersi.
Grazie alla particolarità degli abiti utilizzati nel corso dell’opera, i personaggi sembrano attraversare le epoche storiche, come se la tela si aprisse nel ‘600 e calasse ai giorni nostri. Anche lo stesso Arpagone indossa la tipica veste nera, ma qui rivista in chiave moderna dalla costumista Maria Freites, che utilizza tra i vari materiali anche la plastica, l’ecopelle ed il lattice. I costumi sono rivisitazioni contemporanee della seconda metà del Seicento: si scorgono corpetti con stecche rigide, ampie gonne morbide arricchite con mantelli di plastica e luci al led. Il tutto a creare mise uniche nel loro genere, forse un po’ kitsch, ma che catapultano lo spettatore in un mondo irreale ed atemporale, rendendo così L’avaro di Molière sempre attuale. (G.B.)
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