“La democrazie e la bicicletta”, secondo articolo del blog L’Amico del Giaguaro, di Tiziano Arrigoni.
Una domenica di febbraio sono andato nei boschi del Frassine vicino a Monterotondo Marittimo, per una volta non per fare funghi o asparagi, ma per ricordare un fatto di 70 anni fa. In realtà facciamo trekking per strade rurali, polverose d’estate e fangose d’inverno, in mezzo al bosco mediterraneo per ricordare un sanguinoso fatto d’armi fra fascisti e partigiani, che si concluse con la morte di cinque giovani partigiani. Mi ricordo una poesia di Attilio Bertolucci: “Stavamo di vedetta armati/ con vecchi fucili novantuno/ a difesa della libertà conquistata/ da loro per la piccola patria”. Ed era davvero una piccola patria per questi ragazzi morti settant’anni fa, fatta di colline e poderi che appartenevano ad una patria più grande di cui si intuivano i contorni. Giovani e anziani oggi si fermano accanto ai ruderi della casa colonica dove si svolse lo scontro, che mostra impietosamente i resti di un caminetto, qualche resto di intonaco blu, una vita ormai assente che si mostra senza pudore. Pensiamo che siamo fortunati a non essere stati lì nel 1944, quando la vita era appesa alla raffica di un fascista qualunque.
Poi dopo alcuni brevi discorsi, parla anche un anziano ex partigiano, un signore come ne vediamo nelle nostre città, al campo di bocce, o in piazza a parlare di sport o sempre meno di politica, a criticare i lavori del sindaco, che tutto è sbagliato, che gli è tutto da rifare. Il nostro anziano si commuove parlando della sua gioventù partigiana, dei suoi compagni morti, fin qui tutto come da “rituale”, poi… poi, a un certo punto ci dice: “ma la mia lotta non si è fermata nel ’44”. E ci racconta del suo lavoro di taglialegna, nel bosco da buio a buio, un lavoro fatto di sudore e fatica vera, scomparso dal nostro panorama di italiani, giusto gli immigrati macedoni o bosniaci continuano a farlo.
La sera, a casa, un piatto di minestra e poi via. Per stradine di campagna, a piedi o in bicicletta, al buio, passando di podere in podere, ad insegnare ai contadini, ai boscaioli la “democrazia” , a dire che loro non erano gli ultimi, ma facevano parte della politica, della comunità dei cittadini, che dovevano lottare per cambiare la società, che dovevano partecipare. Una scuola di democrazia in qualche povera cucina contadina o in una stalla. Una rivelazione: aldilà del rituale, nella voce di questo vecchio taglialegna – partigiano, in un bosco di Maremma, ho sentito la voce antica eppure tanto moderna della democrazia, quella che spesso abbiamo dimenticato nell’uso e nell’abuso di questa parola, dette in modo così alto e così netto che mi hanno quasi stupito. E mi sono reso conto che queste povere parole valgono cento discorsi di un qualsiasi politico dei nostri tempi, noi che siamo alla ricerca di una identità qualsiasi pur di sentirsi vivi. Noi che votiamo sempre meno (come nelle elezioni in Sardegna dove ha votato la metà degli aventi diritto), noi che accettiamo presidenti votati dal 20% degli elettori, noi che non abbiamo più il senso della partecipazione, se non nelle sue parvenze, e ci stupiamo quando la piazza più mediatica è solo quella dei “forconi”, noi che crediamo che tutto si risolva con una votazione sul web, o che (come mi ha suggerito un’amica giornalista) alcuni “timidamente dissidenti vengano cannoneggiati dalle finestre in notti di semi inverno”. Ecco allora che, in una notte di luna piena, vorremmo incontrare, in qualche stradina maremmana, la democrazia che viene avanti su una bicicletta cigolante: ci uniremmo volentieri a lei e parleremmo di umanità.