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Generale, la guerra è finita? | Bollicine

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Generale, la guerra è finita?

 

Mettere insieme la Jugoslavia, il calcio, Vasco e il 1991 è un operazione piuttosto ardita. È un frullato di concetti date e facce che forse potrebbe sembrare un po’ indigesto. Ma gli anni ’90 son stati anche questo: forti contraddizioni e grandi pagine che si sono chiuse.

Ma andiamo per ordine con il primo ingrediente. È il 1991, il decennio è appena iniziato con purtroppo diversi eventi negativi. La guerra, intesa come conflitto, come sterminio, come macerie e vittime è ricomparsa. La lezione della seconda guerra mondiale non è durata quanto avrebbe potuto. Molti stati ribollivano di voglie di indipendenza di spinte nazionaliste. L’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq fu il primo fatto rilevante che aprì una ferita e un conflitto con cui si è fatto fatica a venire a capo, ammesso che ci si sia riuscito. Ma la guerra forse più sanguinaria, se possiamo fare questa triste classifica, e che colpì da vicino il nostro paese è senza dubbio quella dei Balcani, la distruzione di quel grande e mitico stato che era la Jugoslavia.

Chi ha fatto le elementari negli anni ‘80 si ricorda sicuramente di atlanti con l’indicazione di questo grande stato oltre il Mar Adriatico che partiva dalla fine del Nord Italia e arrivava fino a toccare la Grecia. A guardarlo da fuori non sembrava che racchiudesse in sé anime tanto diverse. Religioni, politiche e orientamenti che sono state tenute insieme per anni da un forte dittatore, ma che, complice la crisi economica e la mancanza di figure altrettanto carismatiche, si sono scontrate fino a scoppiare. La Jugoslavia comprendeva al suo interno la Bosnia, della splendida Sarajevo, la Croazia, il Montenegro, la Serbiae la Slovenia. E proprio quest’ultima accese la miccia del conflitto, dichiarando nel giugno del ’91 la propria indipendenza.

Generale

Fu l’inizio del conflitto. Furono anni interminabili e sanguinosi che sembravano non vedere una soluzione. La capitale della Bosnia, Sarajevo, fu tenuta in assedio per ben 46 mesi. Rimasero nella storia le immagini dei cecchini appostati sui tetti di questa città che non avevano la minima pena per niente e nessuno, e della vita che improvvisamente venne congelata. Risolvere una questione del genere che comprendeva interessi economici e militari, ma anche religioni diverse, forti nazionalismi e legittimi desideri di indipendenza non era facile. La politica e la diplomazia faticarono non molto a trovare un punto di incontro. Ma alla fine ci riuscirono.

Alla fine del 1995 a Dayton in Ohio si riuscì a mettere attorno a un tavolo i principali rappresentanti politici delle diverse correnti. L’accordo riuscì a creare dei confini e delle frontiere condivisi, separando le entità di religione e politica diverse. Da quell’accordo si arrivo poi alla configurazione di oggi in cui si vede convivere lo stato della Slovenia, quello della Serbia, della Croazia, della Bosnia e della Macedonia.

In Italia si guardava al conflitto con preoccupazione e non poche polemiche ci furono sull’invio dei nostri soldati nelle missioni di pace stabilite dall’ONU. Come sempre l’argomento porta con sé divisioni tra chi da un lato si dichiara a favore dell’intervento non vedendo altre vie di uscita e chi si dichiara a prescindere pacifista, ben sapendo che le missioni di pace difficilmente prevedono l’uso di munizioni a salve.

In questo panorama di opposte opinioni e forti polemiche si collocò anche il mondo dello spettacolo che negli anni del conflitto fece più volte appelli, se non per la pace, almeno per una tregua duratura. L’evento che vorrei ricordare fu il concerto di una rock star molto conosciuta, Vasco Rossi, che, senza un album da promuovere, organizzò ben 5 concerti a Milano, a San Siro, chiamando la manifestazione “rock sotto l’assedio”.  Non fu un concerto di beneficienza, anche se ospitò i Sikter, un gruppo Bosniaco, e i Sarajevo Festival Ensamble. Vasco riuscì a fare cinque sere da tutto esaurito. Riempire San Siro così, senza nuovi album, non era da tutti, anzi diciamo che solo lui con il suo carisma poteva riuscirci. La particolarità di questi show fu tra l’altro l’inizio del concerto. Vasco fece suo un brano meraviglioso di De Gregori, “Generale”. Era proprio questo il messaggio che voleva far passare, “Generale dietro la collina non c’è più nessuno, solo aghi di pino e silenzio e funghi…”, cioè la voglia di pace e di tornare a casa accomuna ogni uomo di qualunque religione e provenienza sia. La guerra che non sembrava finire mai, era un incubo soprattutto per chi la combatteva per chi si trovava a partire, per chi guardava quelle “cinque stelle” e si chiedeva che senso hanno, dentro al rumore di quel treno che ora è mezzo vuoto e mezzo pieno. La nostalgia di casa, la voglia di pace non hanno colore, non hanno confine. Era un grido forte e condiviso.

Tornando ad oggi, a distanza di anni si fatica ancora a cogliere il senso di questi conflitti, o meglio a capire che cosa possa valere anche solo una vita di quelle migliaia che sono state sacrificate. In ogni conflitto è purtroppo sempre così. Ed è così anche ogni giorno, dove a volte, anche se non ci rendiamo conto, abbiamo di fronte la scelta se salvare una vita o distruggerla. In questo caso forse ci siamo trovati di fronte oltre alla complessità anche una spinta che veniva da lontano. È stata scritta la parola fine a una grande stato, aprendo una nuova pagina a diverse, più piccole, repubbliche.

Che nostalgia però per la Jugoslavia, per uno stato mitico e forte. Uno stato che nello sport non vedeva rivali. L’unica nazionale di basket che poteva guardare dritto in faccia il dream team americano rimandandolo a casa a mani vuote. Uno stato che aveva la nazionale di calcio che era definita il Brasile d’Europa, che aveva tra le sue file dei geni come Savicevic, Boban, Pancev, Mihalovic. Campioni che poi si sono sparpagliati nei relativi stati di provenienza. Club come Stella Rossa o Partizan Belgrado facevano paura solo a pronunciarli, batterli in casa era praticamente impossibile. La nazionale Jugoslavia era un mostro di bravura che si fermò al mondiale Italiano solo di fronte a Maradona. Avesse potuto continuare a giocare, nonostante tutto e tutti, sarebbe diventata la nazionale più forte di sempre. L’unica isola in cui venivano tenuti insieme sentimenti diversi che, di fronte a un pallone, riuscivano a convivere.

Matteo Pardini

Matteo Pardini

Blogger di WIP Radio con le sue "Bollicine".

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