Avrei inaugurato questo spazio con un benvenuto a chi passerà da queste parti, a chi si troverà bene e avrà voglia di tornare, poi ho pensato che condividere una riflessione e un ricordo vuol dire affidarsi fin da subito a chi legge e forse non esiste un benvenuto migliore di questo.
Resto in tema di saluti, ma di quelli che si fanno quando se ne vanno persone che abbiamo amato da lontano e allo stesso tempo da vicino: una foto appesa al muro, una fila di cd in ordine alfabetico che stonano con il disordine di una camera da letto di ragazzo, una tesi di laurea da dedicare, la sensazione che ciò che siamo diventati sia anche merito o colpa loro.
Resto in tema perché, a ogni saluto che si rispetti, si accompagna la sequenza delle critiche al saluto stesso.
Ieri non era così, ma oggi ci sono i social e sui social troviamo il fan, l’affezionato, il neofita e quello che non conosce ma per rispetto solleva una mano, ascolta una canzone e ringrazia, pensando che da domani varrà la pena di approfondire. Ultimo, ma solo per conseguenza, viene l’indignato.
Due giorni fa David Bowie se ne è andato.
Per quanto mi riguarda, l’ho scoperto e amato solo dai ventiquattro anni in poi, quindi ho ritenuto giusto dedicargli un pensiero discreto, ciò che di norma ci si aspetta da parte di chi non ha conosciuto un artista fino in fondo. Scorrendo la home page di Facebook mi sono fermata a leggere, commossa, i pensieri di chi lo conosceva meglio di me e, tra un pensiero e l’altro, sono inciampata sul primo post indignato del giorno. Si trattava di un utente che non tollerava il pubblico ricordo di un famoso “perché le persone normali muoiono tutti i giorni e a loro non pensa nessuno”, seguito a ruota da un altro che non sopportava l’idea che, tra chi ricordava Bowie, ci fossero anche quelli che di lui conoscevano una o due canzoni. Infine c’era Mario Adinolfi, che si è indignato perché il cardinal Ravasi ha ricordato Bowie su twitter e a causa di un commento, ha fatto indignare tre quarti degli utenti. Il giro ricominciava da lì.
Allora ho messo in moto la memoria e sono tornata a un pomeriggio di diciassette anni fa. È l’11 gennaio del 1999, frequento il quarto anno del liceo classico. Sono uscita da scuola, percorro la strada che da piazza San Paolo porta in via Pellini. Papà mi aspetta in macchina. Mi infilo nel freddo di gennaio. I bordi lacerati dei miei jeans a campana raccolgono acqua e terra dalle pozzanghere. I vicoli del centro di Perugia sono pieni di vento. Perdo tempo a leggere la scritta che deturpa la pietra di un muro. In fondo alle scale mobili, l’auto di papà. Entro, butto lo zaino sul sedile posteriore. Papà ha gli occhi lucidi. Per colpa di quel pudore che durante l’adolescenza a volte trascina i figli lontano dalle emozioni dei genitori, non chiedo. Se vuole, mi dirà lui.
C’è una brutta notizia – dice infatti e io sento le mani che tremano e penso ai nonni, a quella zia di Roma che ha passato i novant’anni – È morto Fabrizio De André.
Guardo fuori e cerco tra i rami spogli degli alberi lungo la via, tra i manifesti fradici di pioggia sui muri, perché De André è la lente con cui osservo il mondo da sempre, ma di colpo ho la mano vuota. Nei prossimi giorni mi vestirò di nero e non sarà un gesto di rispetto, sarà l’istinto che mi vorrà invisibile, chiusa in un dolore che gli altri non capiranno, perché quando ami tanto qualcosa ti convinci che appartiene solo a te. Le amiche mi prendono bonariamente in giro. Di notte vado a letto con le cuffie sulle orecchie. Mando più volte indietro Canto del servo pastore e per quei tre minuti sento che è solo mia. La manipolo, la interpreto, la modello a immagine della mia storia. A volte lo sogno. Una notte siamo seduti a un tavolo e lui butta la cicca e mi domanda “Ma che scrivi a fare?”, poi si alza e se ne va. Accetto la critica. In fondo – penso – ha già detto tutto lui. Ogni tanto qualcuno mi ferma dicendo che La canzone di Marinella è la sua preferita. Allora mi diverto, provoco, domando quale altra canzone gli piaccia. Mi sento superiore di fronte a uno sguardo incerto, a un paio di spalle che si sollevano. Rientro nella categoria degli indignati. Poi però non insisto, vivo il mio lutto leggendo biografie, cercando notizie che mi restituiscano qualcosa di lui. Non possiedo un computer, Facebook non è neanche l’embrione di un’idea. Zuckerberg compirà quindici anni tra qualche mese.
Torno nel 2016 e mi domando come avrei reagito, oggi che ho trentaquattro anni, se Fabrizio De André se ne fosse andato l’altro ieri. Probabilmente mi sarei sentita sola, come accadde nel 1999. Conoscendomi, avrei scritto. Pagine su pagine, un sacco di fogli sprecati. Se ne va la persona, è vero, ma la bellezza che ha contribuito a decorare una speranza, un progetto, ad ammorbidire l’impatto con un giorno buio, ti si ferma addosso. È il modo in cui chi è stato leggenda in vita, rimane vivo in seguito.
Torno nel 2016 e mi domando come avrei reagito se avessi letto di folle in lacrime per la scomparsa di Fabrizio De André, di un nome che si è solo sentito pronunciare, di cui non si è registrata che una nota, una melodia. Se ne va la persona. La grandezza resta grandezza e un saluto in più è solo un umile gesto di rispetto. Non sposta nulla e soprattutto non toglie dignità al vero amore. Non contamina i ricordi degli altri. Diciotto anni sono l’età perfetta per essere gelosi di una passione, poi basta.
L’unico appunto lo faccio a chi, preso dalla fretta del saluto, non si è accorto del fatto che ogni tanto le tastiere degli smartphone si ribellano, dando vita a post come “Buon viaggio, Duce Bianco!” L’iter è il seguente: si apprende la notizia, la si metabolizza, si digita il proprio saluto, lo si rilegge e solo a quel punto si clicca invio, perché la scelta cromatica in questo caso è solo uno degli elementi fuorvianti della frase.