Blackstar, l’ultimo regalo di David Bowie
Venerdì 8 gennaio 2016 esce Blackstar, venticinquesimo album in studio di David Bowie; due giorni dopo, il 10 gennaio, David Bowie ci lascia, a 69 anni, dopo 18 mesi di malattia.
Domenica sera ho avuto l’idea di questo primo post e la mia idea era di dedicarlo principalmente a quello che rappresenta, a parer mio, uno dei primi dischi degni di nota usciti nei primissimi giorni del 2016, al fine di celebrare il ritorno di un mito: non avrei mai potuto immaginare che la mattina dopo ci saremmo svegliati con la notizia della sua scomparsa, una scomparsa che lascia il segno, così come David Bowie l’ha lasciato durante tutta la sua vita.
I toni dunque cambiano e quest’album viene letto come una sorta di “canto del cigno” o meglio “un regalo d’addio”, come dichiarato dal produttore e musicista Tony Visconti, che molte volte ha collaborato con Bowie, sin dall’album Space Oddity.
“Ha sempre fatto quel che voleva fare. E ha voluto farlo in questo modo, e voleva farlo nel migliore dei modi. La sua morte non è stata diversa dalla sua vita: un’opera d’arte. Ha prodotto Blackstar per noi, è stato il suo regalo d’addio. Sapevo da un anno che questa sarebbe stata la sua maniera. Però, non ero preparato: è stato un uomo straordinario, pieno d’amore e di vita. Sarà sempre con noi. Ora possiamo piangere”
L’album è stato realizzato in appena tre sessioni nel corso di tre mesi all’inizio del 2015, poi riarrangiato e rieditato negli ultimi periodi di vita di David Bowie.
Sulla copertina del disco appare il nome “Bowie” reinterpretato con simboli realizzati da frammenti di una stella, probabile segno di un prossimo ritorno a quelle stelle da cui proveniva il suo leggendario Starman.
In quest’opera d’arte – e niente può definire meglio quest’album, notiamo il poliedrico interesse dell’artista per il jazz e per l’hip hop. “l’unico obiettivo che ci siamo dati è stato quello di evitare il rock’n’roll” ha dichiarato Visconti.
Possiamo dire che questa sia la svolta jazz di David Bowie? Ad un primo ascolto appare chiaro che il rock futurista abbia lasciato spazio al sassofono e ad atmosfere cupe e vellutate.
L’ambientazione è rigogliosa e densa, modellata da singolari variazioni d’accordi, un sottofondo elettronico e strani effetti sonori inaspettati. Appare un insieme bizzarro e allo stesso tempo bellissimo, come niente della precedente produzione di Bowie.
I fiati occupano ogni ruolo, accarezzando e sorprendendo l’ascoltatore, sia nelle parti ritmiche sia nelle linee melodiche principali, dove le chitarre e le tastiere si intrecciano in una mescolanza di suoni di supporto gli uni agli altri.
Il sassofono è stato il primo strumento suonato da David Bowie nell’adolescenza; si ricorda una sua frase dell’allora quattordicenne Bowie “Sono indeciso se diventare un cantante rock’n’roll o John Coltrane”.
Quello che sicuramente di “jazz” permea lo stile di Bowie, una volta divenuto icona del rock, è l’estrema libertà espressiva, volta ad abbattere i confini stilistici.
Una domenica sera nella primavera del 2014, David Bowie entrò nel “55 Bar” locale storico di New York, nel West Village e notò il sassofonista che si stava esibendo, Donny McCaslin: fu ingaggiato dieci giorni dopo. Il lavoro inizialmente si sviluppò su un brano “Sue (Or in a Season of Crime), che fu rilasciata nella compilation “Nothing Has Changed”.
Lo scorso gennaio l’intera band di McCaslin, composta dal batterista Mark Guiliana, il bassista Tim Lefebvre e il tastierista Jason Lindner, fu richiamata nello studio di Bowie, “The Magic Shop“, studio di registrazione piccolo e discreto vicino alla casa dove Bowie aveva registrato The Next Day, per collaborare a Blackstar .
Blackstar è il caos, senza punti di riferimento, caos organizzato per poterne trarre un significato, il caos personale dell’artista, quello della malattia, in un inscindibile rapporto tra la sua vita e l’arte, come se fosse anch’essa un laboratorio in cui sperimentare nuove vie: non vi è alcuna differenza tra i due piani.
La Title track dell’album è ciò che mai avremmo potuto immaginare come singolo di uscita: una traccia di 10 minuti, surreale, misteriosa che comincia come due melodie separate prima che Bowie e Visconti riuscissero ad unirle. La versione originale superava gli 11 minuti, tagliata a 9.57 dopo aver saputo che iTunes non avrebbe permesso la vendita di un singolo superiore ai 10 minuti.
“Something happened on the day he died
Spirit rose a metre and stepped aside
Somebody else took his place, and bravely cried
(I’m a blackstar, I’m a blackstar)”“Il giorno in cui è morto è successo qualcosa. L’anima è salita di un metro e si è fatta da parte. Qualcun altro ha preso il suo posto, e coraggiosamente urlò (sono una stella nera, sono una stella nera)”.
Ancora più significative le parole di “Lazarus”’, il brano che dà anche il titolo allo spettacolo di Broadway che Bowie, insieme a Enda Walsh, ha curato in ogni dettaglio, dalla produzione al casting.
«Guarda su, sono in paradiso… In questo modo e in nessun altro sai che sarò libero, proprio come quel passero azzurro: non pensi che mi si addica?».
David Bowie ha chiesto al regista Johan Renck di raffigurarlo alla fine dei suoi giorni? Il regista dichiara “Queste sono le tipiche cose che stanno negli occhi di chi guarda. Ognuno ci vede ciò che vuole. Molte di queste idee sono state la summa delle conversazioni tra David e me. David mi ha spedito i disegni di quello che aveva in mente e io gli rispondevo, i pensieri tra di noi sono rimbalzati avanti e indietro in questo modo”
Era davvero tutto preparato perché rappresentasse la colonna sonora della sua partenza? Questo non lo sappiamo, ci possiamo limitare a ringraziarlo per tutto quello per che ci ha donato, pietra miliare nella storia della musica.