C’è un filtro invisibile sugli occhi e sulle orecchie dei bambini, che serve a smussare i pensieri più duri. Quel filtro è un regalo per far sì che quanto rimane in testa del mondo di fuori, della storia, di ciò che avviene intorno, sia selezionato, individuato e interpretato da loro. La prima volta in cui ho scostato di poco quel filtro dalle orecchie facevo le elementari, ma non ricordo quale anno fosse. La scuola aveva invitato un signore perché raccontasse ciò che gli era successo quando era un bambino come noi. Non era anziano, le parole erano lucide e dirette, anche se a posteriori avrei pensato che non si trattava di un questione d’età, che i numeri non sono il solo marchio che resta addosso e l’immagine che riassume quanto hai vissuto, si ferma negli occhi, anche se di anni ne hai ottanta, anche se tra due giorni ne compirai novantacinque.
Continuo a guardare il signore, ascolto e mi accorgo che solleva la mano, se la porta sulla bocca, dice che verso la fine della detenzione per bere tirava su da terra manciate di fango. Me lo vedo questo bimbetto alto più o meno come me, che si accuccia e strizza facendo colare acqua sporca tra le labbra, lo vedo entrare nell’aula magna della scuola. Allora scosto di poco il filtro, mi passa la voglia di fermargli le mani, la lacrima la ficco di forza nella storia perché è lì che deve stare.
Passano questi venticinque anni e stamattina apro la home page di Facebook. Vedo foto di filo spinato, pigiami a righe, il profilo tetro di Auschwitz nel bianco, nel grigio e nel nero. La gente commemora, cita, riflette. Il nome più digitato è Primo Levi, la parola più digitata è memoria. Ignoro chi fa polemica per chi commemora, ignoro chi fa polemica per chi fa polemica per chi commemora. Penso che ogni scusa è buona per la polemica e mi torna in mente quella lacrima, il fango che ancora oggi sporca le labbra dei bambini. Penso che quel solco che ho visto venticinque anni fa sul viso dell’uomo è lo stesso che separa quei giorni dai nostri. È profondo senza esserlo davvero. Penso che il filo spinato sia l’innesto di quell’erba cattiva, che togliere a un padre di famiglia che scappa, il poco che porta con sé, sia come rubargli l’unica valigia che è riuscito a riempire, prima di chiudere dietro alle spalle una porta che forse non aprirà più. Penso che odiare sia umano quanto amare, ma quando la gente si riunisce per odiare in gruppo – che siano piazze virtuali o prati da calpestare – allora vuol dire che la storia non è la gran maestra che si crede d’essere. Non c’eravamo, quindi non possiamo avere idea di cosa sia stato, libri e documentari non bastano. La nostra unica forza sta nel sapere cosa non dovrà più essere. Oggi è il giorno della memoria e non ero certa di volerne parlare, perché le commemorazioni lasciano il tempo che trovano, ma quella lacrima è venuta fuori dal nulla, mentre pensavo ad altro, quindi dedico il post di questa settimana a quel signore di cui non ricordo il nome, alle sue mani che tremavano perché avevano sottopelle le mani degli altri. Dedico ogni memoria alla lacrima che lasciava cadere parlando, come fosse un tic. Io però non me la sento di lasciarla cadere, quindi la fermo qui.