L’insostenibile dignità di chi perde è tale per noi che guardiamo da fuori.
È insostenibile perché ci è impossibile sostenerne la forza, il peso, comprenderne l’origine. La dignità in questa storia appartiene a chi perde: senza un oggetto, senza precisare cosa, perché si parla di padri, di madri e di sorelle che per colpa della crudeltà umana perdono figli e fratelli e di conseguenza perdono tutto. Ecco perché non è possibile per noi, che ci limitiamo al nero su bianco di un quotidiano e ci affidiamo alla voce asettica di un cronista che legge una parte, sostenere tutta quella dignità.
Negli ultimi anni i casi di cronaca che raccontano le storie di chi ha perso, si sono moltiplicati con il loro corredo di foto – ragazzi, un prima e un dopo, occhi aperti e palpebre serrate, la luce della vita e la tumefazione della morte – ultim’ore, bocconi di notizie masticate da altri, un gioco del telefono senza fine.
Patrizia Moretti che dopo la notte del 25 settembre 2005, quando suo figlio “è stato morto” (cit.) ha lottato per anni per ottenere giustizia, scortata dalla voce di chi non ha mai smesso di sostenerne le battaglie, con lo stesso silenzio sul volto, un marchio che resta sulla fronte di chi perde per mano altrui, ignorando gli insulti di chi sosteneva invece la parte avversa, le mani che anni prima le hanno tolto Federico.
Ilaria Cucchi, sorella. Il 22 ottobre 2009 suo fratello Stefano muore all’ospedale Pertini di Roma, dopo alcuni giorni di detenzione presso il carcere di Regina Coeli. L’autopsia rivelerà un corpo tumefatto, sfigurato da lividi e ferite di ogni genere. Le foto di Stefano gireranno – così come quelle di Federico – passando dagli schermi ai quotidiani italiani, uno schiaffo doloroso in pieno volto per dimostrare quanto poco di naturale ci fosse in quel decesso. Ilaria non si fermerà. Portando sulla fronte la stessa ruga di dignità di Patrizia, continuerà a combattere per la memoria di suo fratello.
Alberto Solesin, padre di Valeria, morta al Bataclan durante gli attentati terroristici compiuti dall’Isis a Parigi, la notte del 13 novembre 2015. Le sue parole, “crediamo nei valori che non dividono le persone”, pronunciate ai microfoni italiani, sono state lo schiaffo peggiore sul grugno arrogante di chi era già pronto a pasteggiare col destino della ragazza, strumentalizzandone la morte per secondi fini. La sua testa resterà alta, ferma di fronte a ciò che gli rimarrà della figlia. Ferme le intenzioni e la dignità nelle labbra che chiederanno rispetto ai giornalisti.
Arriviamo ai nostri giorni: Paola e Claudio Regeni, genitori di Giulio, il ricercatore scomparso al Cairo e ritrovato senza vita il 3 febbraio, ucciso dopo giorni di torture, in circostanze ancora da chiarire. Paola e Claudio chiedono giustizia per la memoria del figlio. Le piste offerte fino a oggi (come quella su una presunta banda criminale locale specializzata in rapimenti di stranieri o quella formulata da poco a causa di una lettera anonima recapitata all’ambasciata italiana al Cairo, secondo la quale Regeni era coinvolto in un traffico di reperti archeologici) non fanno che sviare. Le indicazioni sono sommarie e tra tutti i dati richiesti dalla Procura di Roma, sono troppi quelli che mancano.
Da quando Giulio è stato ritrovato, blogger, giornalisti e opinionisti italiani accompagnano le parole dei genitori di Giulio come un coro. Si vuole giustizia, si cerca verità. La verità nascosta che è nascosta solo di facciata. Paola racconta di aver riconosciuto suo figlio dalla punta del naso. Un centimetro quadrato di pelle che le ha restituito il sangue e il legame del proprio ventre con un sacco vuoto. Perché chi perde riceve in cambio il vuoto, questo non andrebbe neanche precisato. Paola allora alza la testa da quel pezzetto di pelle e ne valica i confini affidando il resto, il contorno, a chiunque ascolti.
Racconta di Giulio, racconta com’era, aggiunge di non voler essere costretta a mostrare le foto di quel volto deturpato come a loro tempo furono costrette a fare Patrizia e Ilaria, ma se è necessario le mostrerà, perché è l’ultima fermata. Oltre quelle foto non c’è altro, la vita si interrompe di nuovo riprendendo a fatica e si interromperà ogni volta in cui quelle immagini passeranno sugli schermi e sui quotidiani italiani. Per avere giustizia è necessario violare e violare ancora. Ma non è di questo che stiamo parlando. Parliamo di dignità. Dignità insostenibile per noi che guardiamo da fuori e ci chiediamo come riescano, quelle madri e quei padri, a rimanere in piedi, a trovare la forza di parlare ancora dopo una sottrazione estrema, un furto irreparabile.
Siamo dall’altra parte; da quella donna e dal suo marchio sulla fronte ci separa un vetro. Non abbiamo potere in questa storia tranne uno: il sostegno. Parlare di Giulio non equivale solo a conservarne la memoria, significa tenere alto l’interesse sulla vicenda. È l’unica speranza che la verità – quella nascosta solo di facciata – abbia di venire a galla.
Paola, Claudio, Patrizia, Alberto, Ilaria da una parte. Dall’altra c’è il vuoto di un ricordo amplificato dal silenzio in cui si troveranno quando il tempo sarà passato e l’attenzione verrà rivolta ad altro. Queste persone hanno in comune l’insostenibile dignità di chi perde e una ferita destinata a non chiudersi. L’Italia non può restituire loro un figlio, ma può aiutarle a costruirne una memoria che tenga. In nome di Giulio e di tutti gli altri, di chi ha perso e di chi è perso per sempre, in nome di quella dignità, che il popolo e lo stato rimangano al loro fianco.
Verità per Giulio Regeni.