Se il noto detto è chi sa fa e chi non sa insegna, per questo articolo possiamo modificarlo in chi sa fa e chi non sa domanda e usarlo per raccontare quel particolare momento nella vita di un musicista, in cui gli capiterà di incontrare qualcuno molto insistente e molto sicuro di sé, che cercherà di convincerlo che il suo non è un lavoro, partendo dalla più semplice delle domande: “Ma tu cosa fai per vivere?”
Qualche giorno fa mi sono soffermata su un post condiviso da un batterista che conosco. Si trattava dello sfogo di un suo collega, disturbato dalla mancanza di riguardo che molta gente ha nei confronti di chi suona per vivere e parlava dei musicisti come di una delle più maltrattate tra tutte le categorie lavorative. Non sono una musicista, ma lavorando per una rivista di musica negli anni mi è capitato spesso di confrontarmi con chi si guadagna da vivere suonando, quindi mi sono resa conto di quanto, al di là dei toni accesi, quello sfogo nascondesse ben più di un fondo di verità.
Non è un segreto per nessuno, viviamo in un paese in cui il rispetto per l’arte è inversamente proporzionale alla quantità di arte prodotta. Questo mi porta a chiedere, quando mi capita di parlare con chiunque faccia musica, cosa comporti essere un musicista in Italia oggi, quanto sia lunga la lista dei pro rispetto a quella dei contro e quale sia la risposta della gente. Generalmente (ma non sempre, purtroppo, nel senso che alcuni si portano dietro questa piaga anche in età matura) il momento che segue quello della formula “pizza, birra e visibilità in cambio della serata”, è lo stesso in cui comincia la vita. Si diventa grandi, si mette su famiglia, di colpo le bollette sono cappi che stringono alla gola e a quel punto avviene una selezione che divide chi decide di andare avanti e trarre un profitto dal proprio talento, da chi sistema lo strumento in un angolo della stanza, facendo attenzione a proteggere il legno dalla polvere. La musica è una madre con una miriade di figli, ma non tutti le crescono accanto. Molti la vivono da lontano, ogni tanto scrivono, tirano giù due o tre note per farle sapere che sono ancora vivi. Chi fa arte lo sa, ogni forma di espressione è percepita dai più come un passatempo. È dura concepire che ciò che procura godimento, amore, emozione, divertimento (di tutti i generi, dal mero rimorchio alla schitarrata in spiaggia con gli amici), possa costituire anche una fonte di reddito, quindi sarà raro trovare un musicista – persino chi è riuscito a raggiungere il successo – che non si sia sentito chiedere almeno una volta cosa facesse realmente per vivere.
Ma cosa spinge le persone a conferire dignità lavorativa al mestiere di notaio, architetto, impiegato o commerciante, per sottrarla a chi fa musica? Suppongo che l’unica spiegazione plausibile sia il fatto di non ritenere utile il lavoro di chi suona quanto quello di chi ti fa una dichiarazione dei redditi o ti taglia i capelli prima di un appuntamento importante. La musica è un bellissimo mare magno – non tutta, sia chiaro, ma non è mia intenzione toccare l’ambito dei gusti personali – è una via di fuga o qualcosa da condividere con gli altri. Per la maggior parte delle persone resta un elemento decorativo, che permette al cuore di contemplare ciò che lo sguardo non può raggiungere, motivo per cui chi fa musica non lavora: si diverte, se la gode, crea bellezza e suscita ammirazione. In sintesi, chi vive di musica al giorno d’oggi, a meno che non raggiunga una buona dosa di successo e notorietà, non è destinato a essere preso sul serio. Senza contare che molti musicisti sono costretti a inventare numerosi espedienti che permettano loro di arrivare alla fine del mese senza uscire dall’ambito delle proprie capacità, come l’insegnamento o piccole registrazioni in studio – lavori spesso mal pagati e non in regola – e, per completare il quadro, a volte le serate che vengono loro offerte sono a titolo gratuito. Sono cose che non tutti immaginano o che non mettono in conto. Fare musica è un lavoro appagante, da la possibilità di viaggiare e conoscere tante persone, confrontarsi con realtà totalmente diverse da quella in cui si vive, regala stima, ammirazione, forse anche un po’ di invidia e soprattutto ha la migliore tra le caratteristiche che rendono grande il proprio lavoro: è amata, è da amare, è quasi sempre ciò che si è scelto, per cui si è lottato, per la quale di tanto in tanto si salta anche un pasto, ma necessita di studio, dedizione, volontà di migliorarsi, autocritica. Come ho già detto, io non sono una musicista, ma sono circondata da chi fa musica e ci sono volte in cui percepisco lo sconforto di dover spiegare quanto duro sia questo genere di mestiere. Lo scenario è piuttosto facile da immaginare. Ci troviamo in un locale, il musicista ha finito un concerto di due ore, scende dal palco e su una media di dieci avventori che si avvicinano per congratularsi, ne trova almeno uno che non sa e gli domanda cosa faccia per vivere. A questo punto il musicista ha due possibilità: andarsene ignorandolo oppure offrirgli un Imodium, perché è probabile che le due ore precedenti l’avventore le abbia passate in bagno.