Prendiamo il giorno e la notte, la luna e il sole, il bianco e il nero, il caldo e il freddo. Ora separiamo ogni elemento dal suo opposto. Avremo Beatrice. Prendiamo l’elemento rimasto. Avremo Donatella. Riprendiamo il primo e avremo Donatella, affidiamoci al secondo ed ecco riapparire Beatrice. Il limite – quello tra follia e lucidità – non è che un passo da fare in più o in meno, così come il confine che separa il caldo dal freddo o il giorno dalla notte, perché in ognuno di noi un opposto sopravvive accanto alla nostra essenza e nonostante quest’ultima.
Beatrice e Donatella si conoscono per caso, tra le mura di un istituto terapeutico, finché un giorno, a causa di un ritardo del furgone che va a prendere le pazienti sul luogo di lavoro, le due non decidono di concedersi quella che i dipendenti della comunità, Villa Biondi, definiranno una “bravata” per proteggerle e minimizzare le conseguenze della fuga. Beatrice e Donatella, ne La pazza gioia, scappano, si rifugiano nel mondo e si confondono tra i “normali”, senza un piano ben preciso o una meta definita. Non hanno una misura. La prima non misura l’entusiasmo, la fame costante di sentire su di sé l’ammirazione e l’amore di chiunque incroci lungo la via, il bisogno di raccontare e raccontarsi quella che somiglia più a una favola che a una vita reale. La seconda non misura la tristezza, non tratteggia i contorni del buco in cui si nasconde a causa di un passato di droga, abbandono e separazioni e viene inghiottita dalle immagini, dal segreto doloroso che porta con sé. La prima è carica di una luce che, volontariamente o meno, si impone di irradiare, possiede una bellezza nobile, il volto le ride anche quando lei si disorienta e si circonda di feticci che le ricordano qual era il mondo a cui apparteneva: cosmetici costosi, abiti eleganti e un parasole da cui non si separa mai, come un nobile decaduto non si separerebbe dal suo cilindro. La seconda è emaciata e pallida. Scrive su di sé ciò che la storia le ha lasciato addosso, tatuando tributi a pezzi della sua vita che ha irrimediabilmente perduto per strada, come il figlioletto Elia che le è stato tolto in seguito all’evento che la tormenta e il padre, che nel momento del bisogno l’abbandona, invitandola ad “aiutarsi da sola”, ma che lei guarda con occhi innamorati e dal quale si congeda a testa bassa, quasi temesse di disturbarne l’esistenza.
Le separa il posto che cercano sulla scena: la prima vuole il centro, vuole addosso gli occhi del mondo – lo stesso mondo che l’ha allontanata anni prima – e se non percepisce quello sguardo, fa il possibile per attirarlo; la seconda invece si defila, ogni tanto sembra rinsavire, sussurra all’altra quanto la trovi matta e al contempo la segue. Non la asseconda, le obbedisce in silenzio, le si affida e si lascia portare. Purtroppo, nonostante il desiderio ossessivo di Beatrice, il centro della scena non arriva mai. Le due donne si muovono lungo le strade della provincia toscana girando intorno a loro stesse, a un passato con cui temono, ognuna a suo modo, un confronto diretto e che combattono in maniera diametralmente opposta.
Personalmente, per quanto mutevoli siano le passioni e per quanto i gusti possano cambiare negli anni, una delle costanti che mi hanno accompagnato nella vita è stata l’amore per i film di Paolo Virzì, un sentimento cresciuto insieme a lui, al suo farsi profondo e ruvido, alla sua capacità di muoversi tra un passato dai colori caldi e un presente asettico, tra le linee fredde del panorama lombardo e il verde polveroso di certi luoghi della toscana, senza abbandonare mai la sua cifra stilistica: il retrogusto amaro di una commedia che quasi sempre piazza sulla scena vite realistiche e pertanto zeppe di difetti, di ammaccature e debolezze. Da La bella vita (1994), sua pellicola d’esordio a Il capitale umano (2014), ha pescato nella provincia dando vita a personaggi che in un modo o nell’altro sono finiti nella memoria degli spettatori e con La pazza gioia non ha tradito le aspettative. Le ragazze di questa storia hanno fragilità e crepe e ombre amplificate dal loro vissuto e Virzì non si è limitato a raccontarne le vicende: ha avuto il coraggio di renderle dolorosamente umane, di farcele amare, di prendere notizie di cronaca di fronte alle quali scuoteremmo il capo (giustamente) pieni di biasimo e renderci partecipi di questo dolore. Quindi, sì, La pazza gioia non è solo un bel film. È una storia amara, cruda, profonda, un sentiero di pietre su cui l’anima inciampa e si ferma a guardare l’origine della propria caduta e il tutto è reso ancor più intensamente dalla bravura delle due protagoniste, Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti che sono in state in grado di dar vita a due personaggi eternamente in bilico, che rischiano di precipitare da un momento all’altro senza mai sfiorare il cliché della follia “gratuita”.
La pazza gioia è una pazza bellezza, è il non sapere dove si sta andando e, soprattutto, se il mondo avrà in serbo un posto per noi, ma intanto è partire: vivere il brivido di bastare a se stessi, follemente inconsapevoli del fatto che in fondo, di noi, non è rimasto molto.