Avete presente le targhe appese sui muri delle piazze di alcune città, che riportano elenchi di martiri, eroi e vittime di guerra? Perfetto. Immaginate una targa in più, ma immaginatela di un materiale che si dilati nel tempo e se un materiale del genere non esiste, pazienza. Fate uno sforzo. C’è bisogno di spazio, perché i nomi già incisi su quella targa sono molti e continuano ad aumentare.
Si tratta di una targa che tutti conosciamo e su cui tutti, almeno una volta, ci siamo soffermati. È la targa invisibile delle vittime di femminicidio.
In questi giorni, dopo l’omicidio di Sara Di Pietrantonio, media e social network si sono nuovamente soffermati sull’argomento. Mi è capitato di leggere, in più di una pagina, esclamazioni di stupore come “Cosa sta succedendo!” oppure “Che cosa prende agli uomini!” che tradiscono l’idea sbagliata che l’omicidio di Sara abbia dato il via a una concatenazione di eventi. Una sorta di effetto domino che prevede fenomeni come l’emulazione.
L’ho pensato anche io, sarebbe ipocrita negarlo. È il primo sbaglio che facciamo. Credere che il femminicidio sia un fenomeno in grado di sparire e riapparire a seconda dei periodi, che se i media non ne parlano per un po’, vuol dire che la follia violenta si è placata e si può tornare alla vita normale. La realtà è che il femminicidio è un rigagnolo d’acqua sporca che di tanto in tanto si infila nella terra e di tanto in tanto ritorna in superficie. Non smette mai di scorrere. Per questo la sua targa ogni tanto si fa invisibile, ma la materia in cui è forgiata non smette di dilatarsi.
Dobbiamo abituarci all’idea che il femminicidio esiste, imparare a cogliere i segnali, giocare d’anticipo. Soprattutto se si è donne. Soprattutto se si fa parte delle forze dell’ordine. Soprattutto se si abita nella casa accanto. Soprattutto se si è madri o padri.
Riassumo brevemente il pensiero espresso da una ragazza sulla sua bacheca Facebook dopo l’omicidio di Sara: è inutile e dannoso e fortemente discriminatorio insegnare alle figlie femmine a comportarsi da brave ragazze, a vestirsi in maniera sobria e castigata, a comunicare con gli uomini senza rischiare di apparire provocanti, a seguire corsi di difesa personale, quando nessuno si prende la briga di insegnare ai figli maschi che il rispetto reciproco è la linfa vitale di ogni rapporto e che la gelosia (sentimento umano e pertanto spesso inevitabile) non deve mai e poi mai tramutarsi in violenza o in senso del possesso. Nulla ci appartiene, tantomeno il proprio compagno o compagna di vita.
Io, come tutti, non conosco la formula magica per far sì che questo meccanismo atroce si interrompa. La violenza domestica nasce con il mondo e secondo un ragionamento logico sulla base dell’evoluzione umana, mutando la figura della donna della società, dovrebbe scomparire l’idea di lei come un oggetto, come un bene acquisito facente parte del patrimonio maschile, invece l’impressione che si ha è che l’efferatezza con cui questi delitti vengono compiuti, sia direttamente proporzionale al numero di donne uccise. Un mutamento agghiacciante al quale assistiamo quotidianamente mentre puntiamo il dito sulle nuove divise Alitalia e sul colore discutibile dei collant di quelle hostess, o sulla figura della donna in certe culture o ancora, su pratiche irragionevoli e barbariche come l’infibulazione o la lapidazione pubblica. Non mi perdo nei confronti, sarebbe sbagliato, ma è bene ammettere che il femminicidio è una pratica meno isolata di quanto si pensi e che il diritto di possesso della propria compagna e il potere decisionale sulle sue scelte è una forma di sottomissione illegale e nascosta ma presente e della quale, giorno dopo giorno, ci stiamo fortunatamente accorgendo.
È fondamentale parlare con i ragazzi, con le menti ancora da forgiare, tenere d’occhio con discrezione le loro evoluzioni personali, insegnare loro che tutto ciò che è vivo appartiene solo a se stesso e che concedere libertà è molto più difficile che ottenerla in cambio, perché il secondo è un processo che si da sempre per scontato. Proprio come hanno fatto Sara, Michela, Federica, Debora e le altre cinquantaquattro donne uccise dall’inizio del 2016. Quello che resta, dove c’era vita, non è che aria. La luce attraversa le assenze eppure ripeterne il nome rende quelle assenze pesanti, come piombi appesi alla nostra coscienza, ai silenzi recidivi, all’atto di fregarsene perché è meglio farsi i fatti propri.
Dimenticare è un vizio dannoso, che non sminuisce il problema, anzi, lo fortifica nel momento in cui esso torna di nuovo alla luce. Il femminicidio non è che questo, una ferita nascosta che non stiamo curando. Pensiamo ad altro, convinti che la cosa non ci coinvolga, nel frattempo l’infezione cammina sotto pelle e il marcio dilaga. Come l’elenco di chi non ce l’ha fatta, invisibile e pesante come l’assenza di Sara, Michela, Federica, Debora e come quella targa, sulla quale oggi sono fermi i loro nomi.