Questa non è una recensione perché comincia con È il 1996 e le recensioni serie non cominciano così.
È il 1996.
In un piccolo negozio in cima a Victoria Street, nella Grassmarket Area di Edimburgo, un giorno entra una ragazza. Ha quasi sedici anni, la tinta sbagliata e il giacchetto di una tuta vecchia di quarant’anni, comprato a poco su una bancarella di Via Sannio.
Il negozio vende paccottiglia, quindi per la ragazza è una tappa irrinunciabile. Sul bancone, accanto alla cassa, fanno
Quando ricomincerà l’anno scolastico alcuni amici prenderanno a chiamarla Spud e la cosa la farà ridere, come quelle lenti gialle, che faranno sembrare il mondo preda felice di un’eterna estate, persino nel gelido inverno umbro. E poi nella sua città quegli occhiali non li porterà nessuno. La ragazza sarà talmente entusiasta al pensiero, che neanche si chiederà perché.
E in attimo il 1996 torna a essere passato.
Quando ho saputo dell’uscita del sequel di Trainspotting – T2 – mi sono sentita un po’ in due anche io. Nel senso che mi sono sentita divisa. Da una parte mi dicevo che se avessi deciso di andare al cinema, avrei cominciato a sentire un grande senso di vuoto e delusione già all’acquisto del biglietto, causa traumi da sequel già vissuti. A tutto ciò si sarebbe unito il dover constatare che come non hanno più venticinque anni i protagonisti, anche io ho smesso da un pezzo di averne sedici. La verità è che rivedere i vecchi amici fa
Trainspotting è un cult e so per certo che, se chiedessi a molti miei coetanei, risponderebbero di essere orgogliosi del fatto che sia stato IL Cult della nostra generazione.
Ammetto di aver avuto paura fino all’ultimo, perché l’ho amato incredibilmente, ho amato ancora di più
Non avendo ancora letto Porno, il romanzo – seguito di Trainspotting di Irvine Welsh, da cui è stato tratto T2, quindi non sapevo cosa aspettarmi, ma a quale pensiero affidarmi, sì: Spud era presente. Era nel trailer. Era ammaccato, ma vivo. Come gli eroi, come i reduci.
Questa non è una recensione, per un semplice motivo: ai vecchi amici non si fanno recensioni, ai vecchi amici si da una pacca sulla spalla, coi vecchi amici si condivide un “ti ricordi di quella volta” e se per caso i vecchi amici sono, nel tempo e nello spazio, troppo lontani dal tuo raggio d’azione, si ascoltano in silenzio i “ti ricordi di quella volta” che si scambiano tra di loro, certa di essere presente a distanza, come lo sei stata anni prima. Come due specchi, uno di fronte all’altro che moltiplicano l’immagine modificandola man mano che si avvicina al nucleo, al presente, a chi siamo, a distanza di sicurezza da chi eravamo.
Per concludere, T2 è arrivato vent’anni dopo per ricordarmi quanto avessi amato suo fratello e pretendendo giustamente amore a sua volta, perché il sangue era lo stesso. È lo stesso il mondo freddo e un po’ sporco che i protagonisti calpestavano vent’anni fa, è la stessa l’aria pesante di periferia, le stesse carte da parati troppo colorate, la stessa decadenza, le stesse pareti crepate, lo stesso tessuto logoro dell’esistenza, un pizzico di esterni in più. Soprattutto sono gli stessi attori e gli stessi personaggi a tornare, nonostante i capelli ingrigiti, qualche ruga sul volto e parecchie spaccature nelle reciproche vite, spaccature che, stavolta, hanno a che fare con la vita reale, con i rapporti umani, col dolore e gli scossoni emotivi. Sono spaccature che guardano al di là dello straniamento da eroina e questo, in un certo senso, avvicina i protagonisti al nostro mondo, li pone in una dimensione diversa, più umana, facendoci, senza volerlo, il regalo di una sequenza fotografica che mostri come le cose cambiano quando si cresce, quando si diventa adulti, quando finalmente si è scelto.
Anche la vita, magari. Perché no?
Su tutto riposa un velo che appanna di poco la scena. Quello è il tempo che è passato, ma non ci è dato sapere se quel tempo sia il loro, il nostro, o solo un briciolo di commozione che distorce la visuale.
Niente paura. Quella è la nostalgia.