Chi ha ucciso il calcio in Italia? Il povero Gianpiero Ventura ha meno colpe di altri, se non quella di aver inferto il colpo di grazia. Ne ha molte di piu’ il presidente della Figc, Carlo Tavecchio: con le dimissioni ha fatto soltanto cio’ che si richiede a chi si trova sulla poltrona del piu’ alto in grado quando il disastro e’ conclamato.
Perche’ chi scrive ha sempre coltivato li’dea di scrivere un libro sul declino del pallone, pensato come fosse un giallo. Una indagine da cui far emergere che non esiste un solo colpevole, ma un insieme di responsabili. Come in assassinio sull’Orient Express: ognuno ha dato la sua coltellata, qualcuna più grave delle altre, tutte responsabili alla fine della morte del Pallone azzurro. Dopo la disfatta di San Siro, e la prima esclusione dai Mondiali di calcio dal 1958, la crisi del calcio italiano è emersa in tutta la sua profondita’.
Carlo Tavecchio cerchi di resistere proponendosi come l’unico che da decenni ha cercato di porvi rimedio (vantandosi, per esempio, del provvedimento a favore dei giovani italiani nelle rose della Serie A): Tavecchio avrebbe già dovuto dimettersi per le frasi offensive e insopportabili contro il calcio femminile e i giocatori africani. Quando si arriva a simili disastri, ci si dimette tutti e si ricomincia da capo.
Ma vediamo tutti i perché di una crisi che arriva da lontano e che, per anni non si è voluto vedere nella sua gravità.
L’assenza di vittorie. L’ultima a livello di Nazionale è ormai vecchia di dieci anni: risale al Mondiale de 2006, una vittoria ottenuta, in realtà, all’ombra del grande scandalo di Calciopoli, in cui furono coinvolte – con diversi livelli di responsabilità – le due squadre vincenti del periodo: la Juventus, che per illecito sportivo finì addirittura in Serie B, e il Milan. Due anni prima, l’Under 21 di Claudio Gentile vinse il suo ultimo titolo, dopo aver dominato gli anni Novanta, con quattro titoli su cinque edizioni. A livello di club, l’anno d’oro è stato il 2003, con tre squadre italiane tra le quattro semifinaliste di Champions League. Grazie ai titoli di Milan e Inter, il declino si è manifestato solo dopo il 2010: da allora solo due finale, perse, dalla Juventus. Ma soprattutto, a causa delle pessime prestazioni in Europa League, l’Italia è scesa a sole tre squadre qualificate per la Champions e tre per l’Europa League.
Lo stesso per la nazionale: se nel campionato Europeo la presenza è ancora dignitosa (una finale e due quarti di finale perso ai rigori nelle ultime tre edizioni), ai Mondiali l’Italia colleziona due clamoroso figuracce uscendo già nella fase ai gironi. Cosa che non accadeva ma Germania 1974.
In altre parole, c’è una crisi di risultati, figlia di una perdita di talenti e di una involuzione nel gioco, dove si continua a privilegiare l’aspetto tattico nei confronti di quello tecnico.
Giovani scomparsi. In realtà, la crisi del calcio italiano è la crisi dei suoi giovani. Un tempo, i giocatori dell’Under 21 erano quasi tutti titolari nei loro club e una buona parte andavano a costituire negli anni successivi l’ossatura della nazionale maggiore, da Vialli a Mancini, da Pirlo a Zenga, da Vieri a Gilardino. Dopo il 2002 si è fatta sempre più fatica a trovare giovani da lanciare, costringendo i vari ct che si sono succeduti sulla panchina ad andare a pescare in Serie B. Solo con l’ultimo europeo, i giovani hanno rialzato la testa arrivando alla semifinale. Del resto, basta vedere quanti sono i giovani che giocano nelle squadre di primo piano del campionato: La Juve ha Rugani (con Orsolini in prestito), il Napoli e nessuno, la Roma ha Pellegrini, l’Inter ha Gagliardini, la Lazio ha Murgia. Fa eccezione il Milan che non a caso ha la rosa più giovane di tutta la serie A: Donnarumma, Locatelli, Cutrone e Calabria.
Il ruolo degli stranieri. L’eccessivo peso dei procuratori, che hanno lavorato per alzare sempre di più gli ingaggi dei propri assistiti italiani, ha portato i presidente di serie A e B a rivolgersi al mercato dei giocatori stranieri. I quali hanno garantito un tasso medio di qualità tecnica a prezzi più contenuti. In pratica: sono arrivati meno campioni, ma i giovani italiani sono scomparsi dalle rose, spesso mandati a giocare in serie B o Lega Pro, dove è più facile perdersi o non mantenere le promesse.
Il peso della crisi economica. La recessione degli ultimi dieci anni ha dato la mazzata finale. Scomparsa la figura dei presidenti mecenate come Sensi, Cragnotti, Mantovani, Tanzi, finiti i soldi dei Moratti e dei Berlusconi, i club italiani hanno dovuto cominciare a fare i conti con mezzi sempre più limitati. Senza i presidenti che ogni anno mettevano mano al portafoglio per coprire le perdite, i club hanno cominciato a fare i conti con sani principi di gestione contabile: tanto entra e tanto esce. Senza stadi di proprietà, senza politiche di marketing, senza una Lega capace di vendere il prodotto Serie A all’estero, l’unica ancora di salvezza è stata la partita dei diritti tv. Una strategia perdente, visto che la mancanza di risultati ha portato il calcio italiano ad essere sempre meno appetibile, persino sul mercato interno. Solo la Juventus ha saputo coniugare il vecchio sistema della famiglia proprietaria forte e un aumento dei ricavi commerciali, grazie allo stadio di proprietà e al fatto di essere l’unica squadra sempre presente in Champions.
Senza programmazione. Qui il discorso si farebbe complicato, ma in tutta Europa le federazioni hanno lavorato per costruire il calcio fin dalle giovanili, con azioni coordinate tra tecnici, metodi di allenamento, scelte tattiche, Ma negli altri paesi la Federazione conta, in Italia conta la Lega: quando Ventura ha chiesto che il campionato iniziasse prima per avere più giorni di preparazione in vista della partita con la Spagna gli hanno fatto una pernacchia. Quando ci sono le amichevoli, fioccano i certificati medici dei giocatori, con la conseguenza che la Nazionale ha perso amichevoli importanti per la definizione del ranking. Peccato che proprio a causa di una perdita di posizione nel ranking mondiale abbiamo pescato la Spagna.
L’Italia si è confermata così la nazione in cui ognuno guarda al suo piccolo particolare, salvo poi andare a piangere in televisione per l’occasione perduta da tutto il movimento. Siamo il paese che ha inventato il melodramma e non perdiamo occasione per ricordarcelo.