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I Radiohead e il crepuscolo del rock: intervista a Stefano Solventi

I Radiohead e il crepuscolo del rock: intervista a Stefano Solventi

Da poco è uscito per Odoya “The Gloaming – I Radiohead e il crepuscolo del rock” di Stefano Solventi, giornalista musicale e scrittore. Lo intervistiamo in occasione della presentazione fiorentina di questo saggio che ci ha colpito per l’accuratezza e la profondità di analisi. Solventi, in questo suo quarto lavoro, non si limita a raccontarci e ad analizzare la produzione musicale dei Radiohead, ma affronta una disamina documentatissima e approfondita di ogni elemento che va a costituire il quadro musicale, sociale e politico in cui la band si è mossa, restituendoci, tassello dietro tassello, un grande affresco degli ultimi trent’anni di rock a livello mondiale.

Stefano, andiamo per ordine e partiamo dall’inizio: quando e dove nascono i Radiohead?

I Rthe gloamingadiohead nascono a metà anni Ottanta. Come tanti altri gruppi di ragazzi, all’inizio sono mossi da una passione forte ma non particolarmente a fuoco. Il ritrovo è fissato ogni venerdì nel garage del batterista, Phil Selway, perciò inizialmente si chiamano On A Friday. Sono in quattro, tutti studenti degli istituti che gravitano attorno a Oxford, ma presto vengono raggiunti da Johnny Greenwood, fratello minore del bassista, che si rivela subito un cavallo di razza. Particolare non da poco, il quintetto così costituito non subirà alcuna modifica fino ai nostri giorni.

 

Vuoi parlarci brevemente del loro esordio e degli album successivi?

Firmano per la gloriosa Parlophone e arrivano nel 1993 all’album d’esordio – una volta cambiato il nome in Radiohead – con Pablo Honey, disco acerbo ma non privo di spunti interessanti, il più importante dei quali è Creep, singolo destinato a un grande successo internazionale. Ma è dal secondo album, The Bends, che decollano realmente. La maturità conseguita in soli due anni è impressionante: la scaletta è composta da ballate e pezzi tirati, spinti da un sound bruciante e dettagliatissimo che diverrà un modello per tante power band di fine decennio. Tre anni più tardi tocca a Ok Computer, in cui converge tutta la pre-millennium tension innervata di tecnofobie e residue speranze nel fattore umano: tra cascami prog, elettronica e psichedelia, acquista subito la dimensione di classic album.

Una curiosità: perché per il tuo saggio sui Radiohead hai scelto un titolo come The Gloaming?

Ovviamente proviene dal titolo di un pezzo centrale di un disco cruciale per i Radiohead. Cruciale e delicato, perché Hail To The Thief veniva dopo due capolavori che avevano cambiato tutto e rilanciato la loro carriera su un livello diverso. Thom Yorke racconta di un episodio che ha ispirato la canzone e un po’ tutto il disco: una sera in auto, mentre dalla radio ascoltava notizie di politica internazionale, rimase colpito dalla luce del tramonto, da un crepuscolo particolarmente suggestivo che aveva tutta l’aria di essere simbolico rispetto ai tempi cupi che si stavano preparando. Ecco, Yorke dichiarò che Hail To The Thief prima che essere un disco “politico”, voleva raccontare questa suggestione, questo senso di crepuscolo.

E tu hai fatto tua questa sensazione…

Sì, in fondo è un po’ la stessa cosa che volevo raccontare in questo libro: non tanto la presunta morte del rock, cosa che neppure prendo in considerazione, quanto la sua crisi, il suo crepuscolo appunto.

Arriviamo così alla domanda cruciale… Il rock è morto?

No, il rock non è morto, continuano a uscire grandi dischi, però è indubbio che non provocano più il fervore culturale degli anni d’oro del rock.

Perché?

Ecco, questo libro tenta di fare delle ipotesi, ma prima ancora intende raccontare il percorso che abbiamo fatto, gli episodi e le svolte che ci hanno portati fino a qui.

Da dove parte questo racconto?the gloaming

Dai primi anni Novanta, con una inevitabile escursione anche nei tardi Ottanta. Da quei primi anni Novanta in cui non solo uscivano grandi dischi, ma sembravano avere ancora la capacità di cambiare davvero le cose, di raccontarti il presente e indirizzarti la vita. Era anche in generale un periodo gravido di cambiamenti, o della sensazione che fossero imminenti.

Ecco, quel che mi ha colpito è che il tuo saggio non si limita alla parabola artistica dei Radiohead…

Sì, inevitabilmente questo libro parla anche di tante altre cose: di politica, di economia, di cronaca, di innovazioni tecnologiche, di cinema, di letteratura… Quello che ho tentato di fare è abbozzare una mappa, o se preferisci uno stradario. Di tornare indietro e lasciare dei sassolini sulla strada per riconoscere il cammino fatto. Di individuare i punti importanti e poi provare a unirli per vedere quale immagine si forma.

Infatti una cosa che mi ha impressionato particolarmente è che oltre a fare cronaca e storia di ciò che è accaduto, parli anche di te, della tua esperienza personale…

Non era mia intenzione scrivere un saggio analitico, forse anche perché non sarei in grado di farlo. Per me è importante trovare sempre una chiave narrativa, in particolare se l’argomento è il rock. Se ho deciso di scrivere dei Radiohead è proprio perché mi offrivano la chiave narrativa per raccontare tutto il resto. E nel farlo non mi sono tirato indietro, difatti per certi versi questo libro è una specie di memorie sotto mentite spoglie. Ho riportato i ricordi legati ai grandi fatti di cronaca, alla scoperta di certi dischi, ai concerti che ho visto, alle sensazioni che mi hanno lasciato.

Qual è stata la scintilla che ti ha spinto a scrivere questo libro?

Il motivo stesso per cui esiste questo libro è il concerto del giugno 2017 alla Visarno Arena, in cui i Radiohead si sono rivelati al solito mostruosamente bravi di fronte a quasi sessantamila persone. Però da quel concerto sono uscito con sensazioni controverse. Sembrava che gli stessi Radiohead, in quella situazione così grande, così necessariamente strutturata, fossero costretti a pagare pegno alla pianificazione di ogni aspetto dello spettacolo. Le canzoni, pur interpretate in maniera eccellente, non sorprendevano. Erano come delle cartoline ad altissima definizione, tutte arrivavano sistematicamente a destinazione, non andavano mai oltre l’aspettativa.

Ti sei sentito in qualche modo deluso dalla loro performance?

the gloamingDiciamo che non era questo che mi ero abituato a provare a un concerto dei Radiohead, non è questo che dovrebbe accadere in un concerto rock. Tutto ciò ha dato il via a una serie di riflessioni che mi ha fatto capire di avere trovato la chiave narrativa per il saggio che volevo scrivere da tempo. Era sempre stata lì, davanti ai miei occhi: erano i Radiohead, che fin dai primi passi della loro carriera raccontano la crisi del fattore umano nell’era dell’automazione, e lo fanno integrando la crisi dei codici del rock nel loro fare musica.

Ma, detto tra noi… c’era proprio bisogno di una band come i Radiohead?

Nessun gruppo rock è indispensabile, si vivrebbe bene anche se non fossero esistiti i Velvet Underground, per dire. Però sarebbe stato tutto molto più noioso. Sono contentissimo che siano esistiti i Velvet, i Sonic Youth eccetera. Dei Radiohead posso dirti che ho sempre avvertito il senso di necessità rispetto al proprio tempo. Non è una cosa che mi sto inventando adesso. Fin dalle prime note di Planet Telex ascoltate in cuffia nel mio negozio di dischi di fiducia, era il giugno del ’95, sentii che mi stavano raccontando quello che dovevo sentire e nel modo giusto.

Qual è l’album dei Radiohead che ti ha conquistato?

Pablo Honey non mi aveva convinto, difatti non lo avevo comprato, ma con The Bends avevano centrato il segno, la frequenza nevralgica di quel periodo di grandi aspettative e grandi timori. Una pre-millennium tension, se vuoi. Era esattamente quello che avevo bisogno di ascoltare. Il nuovo che stava arrivando era esaltante e pauroso assieme, e loro me lo stavano raccontando. Tutto ciò sarebbe divenuto un elemento centrale della loro musica. Aggiungo doverosamente una nota: i detrattori dei Radiohead dicono che sono eccessivamente e sistematicamente negativi, deprimenti, persino lagnosi. Ecco, quando mossero la stessa accusa a Leonard Cohen, lui rispose più o meno così: “quando il torero entra nell’arena, non ha voglia di raccontare barzellette”.

Creep – a cui accennavi prima – è una canzone molto significativa che non è mai passata di moda. Cosa ha rappresentato per i Radiohead, credi che senza questo pezzo la loro parabola artistica sarebbe stata la stessa?

È difficile rispondere. Sicuramente con The Bends si lasciarono alle spalle la fama di “quelli di Creep”, tuttavia nel disco Pablo Honey Creep è sicuramente il pezzo che dà senso a tutto, oltre ad essere uno dei brani cardine degli anni 90. Si disse all’epoca che era un pezzo molto Nirvana e in effetti lo è, però bisogna considerare che l’influenza dichiarata di York e compagni erano i Pixies, influenza basilare anche per Kurt Cobain. In Creep c’è secondo me l’idea stessa del ragazzo che si ritrova smarrito negli anni 90 che cominciavano a esigere un certo tipo di livello di condotta esistenziale…

Qual è secondo te il senso recondito di questo brano? the gloaming

Creep è una canzone che malgrado parli di una storia d’amore un po’ “sfigata”, in realtà nasconde anche il senso del sentirsi inadeguato in un mondo che ti vuole “formattato” in un certo modo. C’è proprio quell’innesco di un discorso che poi sarà sviluppato nei dischi successivi ed è la canzone che li ha fatti conoscere. Ma visto come poi hanno sconfessato la loro prima fase, sono convinto che anche senza quel “botto” sarebbero venuti fuori.

“Ok computer” è considerato uno dei migliori album della storia della musica recente; in che modo pensi che questo disco abbia cambiato il senso di quella storia?

Credo che il principale merito dei Radiohead sia stato quello di ribadire – non sono stati i primi a farlo – che il rock per rimanere se stesso doveva essere disposto a cambiare, anche a costo – paradossalmente – di non restare se stesso. Ripeto: non sono stati i primi a farlo. Tuttavia loro con “Ok computer” realizzano un disco epocale, che è ancora rock. Il rock era stato rimesso in discussione in molti modi: con il trip hop, l’elettronica, ecc. Secondo me in quegli anni di significativo c’era anche un altro aspetto, ossia che si era ampliata in maniera esponenziale la possibilità di ascoltare tutto lo scibile del rock, grazie alla massiccia campagna di ristampe che arricchì le major.

Quali furono le conseguenze di questa grande operazione commerciale su ascoltatori e musicisti?

Beh, ad esempio fu rimasterizzata anche roba che non era riproponibile. Nei negozi di dischi all’epoca gli album più belli erano quelli che costavano meno, il disco nuovo invece costava il doppio. Il repertorio dei precedenti 40 anni di rock iniziò a arrivare ed ebbe un’influenza sui musicisti stessi e quindi cominciammo a imbatterci in dischi che erano sempre più uno zibaldone, in cui erano presenti tutte le sfaccettature del rock.

E tutto questo in che misura coinvolge e riguarda anche i Radiohead?

Anche in “Ok computer” emergono vari livelli di concezione del rock: fu detto di tutto all’epoca, si scomodarono i Pink Floyd o i Queen… In ogni caso è un disco che ti poneva davanti a uno scenario impazzito. Ricordo il concerto in Piazza Santa Croce, in cui ci furono presentate 7 canzoni e non capivamo cosa stessimo ascoltando perché era una roba che smentiva tutto quello che era stato fatto fino ad allora dai Radiohead. Comunque si capì che il rock aveva bisogno di ridiscutersi dalle fondamenta; la scena sarebbe esplosa con l’elettronica e con tanti altri generi. Il rock era a un bivio e fu chiaro anche grazie ai Radiohead.

Il rock in quegli anni inizia a sparire dalle classifiche di vendita, Yorke fa esperienze da solista…poi arriviamo all’album In rainbows, che esce il 10 ottobre 2007 …come ci arrivano i Radiohead, come sono cambiati? Come puoi riassumere quello scorcio della loro storia? Quali sono state le tue impressioni all’uscita di quell’album?

In rainbows deve confrontarsi con un grande ostacolo: quello di essere il disco del download, perché è un album cardine sulla presa di coscienza dell’ambiente del rock che qualcosa era cambiato nella prassi di creazione e distribuzione del rock. Si tratta di un gran disco, l’album di una band matura. Di In rainbows conservo una sensazione profonda, perché mentre ti raccontava la possibilità che l’album vaporizzasse il supporto fonografico, in quello stesso momento i Radiohead si rifugiavano in questa dimensione più raccolta e tornavano a recuperare il senso del suonare insieme. Si tratta di un disco che conserva questa chiusura di fronte al mondo.

Come ha influito il successo sulla vita dei Radiohead e in particolare del vocalist Thom Yorke? Per finire, ci riassumi il loro percorso artistico fino a qui?

Il successo conduce Thom Yorke fin sull’orlo di un esaurimento nervoso. Dopo una breve ma intensa fase di ripensamento artistico, arriva il “doppio album mancato” Kid A / Amnesiac, lavori usciti a distanza di pochi mesi tra 2000 e 2001 che mettono in discussione il fare rock partendo da premesse ed elementi electro e jazz. A quel punto, primi anni Zero, i Radiohead sono tra le prime band al mondo. Dopo un album sfaccettatissimo e politico come Hail To The Thief, pubblicano un disco più raccolto come In Rainbows, celebre per essere stato distribuito in download a un prezzo “up to you”, quindi anche gratis, vero e proprio spartiacque rispetto alle modalità di distribuzione tradizionali (su supporto fisico o meno).

Infine cosa accade ai Radiohead?

Mentre il leader Thom Yorke, Johnny Greenwood e Selway si concedono avventure soliste (il primo allestendo anche un combo – gli Atoms For Peace – assieme a Flea e al produttore Nigel Godrich tra gli altri), arrivano altri due lavori, il sintetico The King Of Limbs e il variegato A Moon Shaped Pool, in cui è palpabile un senso di raccolto e malinconia, non ultimo per la crisi coniugale tra Yorke e Rachel Owen, compagni da un quarto di secolo. Tutta sarà più chiaro nel dicembre 2016, quando la Owen morirà a causa di un male incurabile. Yorke, che nel frattempo ha intrapreso una relazione con la giovane attrice italiana Dajana Roncione, ha recentemente pubblicato la OST di Suspiria, remake del capolavoro horror di Dario Argento ad opera di Luca Guadagnino.

Ci vuoi lasciare con una citazione a tua scelta da un brano dei Radiohead?

Ok, me ne viene in mente una da Paranoid Android: “Quando diventerò re sarete messi al muro per primi voi e le vostre opinioni che non contano nulla. Sta arrivando l’era glaciale.”

the gloaming
L’autore S. Solventi e E. Giobbi

 

Elisa Giobbi

Elisa Giobbi

Fiorentina, coltiva musica e scrittura fin dall'adolescenza. Ex editrice, è autrice di "Firenze suona", "Rock'n'roll noir", "La rete", "Eterni", "Love (& Music) Stories, "La sposa occidentale", "La morte mi fa ridere, la vita no". Presidente dell'ass. cult. "Firenze suona", organizza e dirige rassegne e contest musicali.

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