Marina Abramović a Palazzo Strozzi
Prima di iniziare
Non è buio ancora è un blog, ma è anche il titolo e il refrain di una canzone di De Gregori, che traduce il capolavoro di Bob Dylan (Not Dark Yet). Il ritornello continua con: ma lo sarà fra un po’. Il blog ha come scopo la separazione dei due emistichi, e l’affrancamento del primo dal secondo.
Marina Abramović. The Cleaner
Dopo questo inizio aulico, è bene tornare coi piedi per terra. Ma questo non vuol dire cibarsi come maiali di verità cadute per terra (cit.), anche perché tenevo ad iniziare il blog con qualcosa di forte, fuori dall’«edibile ordinario». La retrospettiva di Marina Abramović, in corso fino al 20 gennaio 2019 a Firenze, a Palazzo Strozzi – Strozzina, fa proprio al caso mio. Ci sono stato qualche giorno fa, ma ho ancora impressioni vivide nella mia mente e nel mio corpo. Il corpo. Senza dubbio elemento essenziale per l’Abramović, visto che ha messo il suo al servizio della propria attività artistica.
Si può dire che la vita stessa è la miglior opera d’arte, e la vita di Marina è una proficua fonte di ispirazione per tutti.
Marina Abramović è una perfomance artist naturalizzata statunitense (è di origine serba). Vivendo da vicino le guerre jugoslave e in Kosovo, rimane profondamente segnata. La sua produzione acquisisce, quindi, forti connotazioni politiche.
La mostra è perfettamente coerente con la missione che si è data da tempo l’arte contemporanea: provocare. Per tutto il tempo che decidiamo di passare con Marina, siamo come lavati con la centrifuga al massimo: il nostro pudore, le nostre sovrastrutture culturali, la nostra stessa concezione del tempo vengono attorcigliate, sgualcite, soffocate da ciò che abbiamo il privilegio di vedere, e non c’è apparecchio che possa rimuovere in toto tutte le pieghe che ormai hanno plasmato il nostro animo, dentro cui – ora – ci sentiamo così bene. Non ho necessità di uscir di metafora, perché il sottotitolo della retrospettiva – The Cleaner (l’addetto alle pulizie) – è il fil rouge di tutto il lavoro. Eh sì, Marina si sporca, e non solo a livello allegorico. Il tatto, l’olfatto, il metabolismo stesso vengono sottoposti alle prove più atroci da Marina – che arriva fino a rinnegare se stessa –, per recuperare quell’essere ancestrale nel mondo, di cui, forse, i monaci tibetani sono gli ultimi depositari.
Certo, bisogna essere pronti e disposti ad accogliere ciò che l’Abramović ha da dispensarci. Il percorso espositivo, infatti, si apre con una scelta nella scelta: dobbiamo scegliere se passare fra due esseri umani nudi (l’elemento umano vivo ci accompagnerà fino alla fine della mostra) posti di fronte, che lasciano uno spazio strettissimo fra di loro. Il passo successivo consiste, dato che lo spazio è limitato e siamo obbligati a passare di lato, nello scegliere verso chi rivolgersi.
Le opere di Marina sono diventate tali (lo dice lei stessa) solo grazie ad un continuo coinvolgimento degli spettatori. È questo rapporto che le innesca e le accende.
Ecco perché, quando all’inizio prenderete la vostra decisione, non aspettatevi che finisca lì.