Alla voce razzismo
Si fa molto parlare in questi tempi di ritorno di fenomeni di razzismo in Europa, di venti dell’est che portano la puzza di un nuovo antisemitismo da luoghi come l’Ungheria e la Polonia, di movimenti ultracattolici che contestano il papa “comunista” ed agitano rosari e crocifissi come fossero randelli identitari.
Ma di quale razzismo si tratta?
Sgombriamo subito il campo: non si tratta più di razzismo biologico, se non confinato a frange nazistoidi, si tratta di un razzismo basato su pregiudizi culturali, civili, persino gastronomici. Sulla volontà di non comprendere, di non confrontarsi, di semplificare per paura.
Non si tratta di fare anacronistici quiz sul grado di fascismo (“quanto sei fascista da 1 a 10?”) di ciascuno di noi, quanto pensare come si arrivò al consenso al fascismo e alla tacita accettazione delle leggi razziali.
Federico Fellini una volta disse che “fascisti sta nell’essere provinciali, nella mancanza di conoscenza dei problemi concretamente reali, nel rifiuto di approfondire, per pigrizia, per pregiudizio, per comodità, per presunzione, il proprio rapporto individuale con la vita”.
Se non si può quindi parlare di fascismo
Se non si può quindi parlare di “fascismo” si può parlare di quei piccoli individui reazionari e razzisti che si incontrano quotidianamente per strada e soprattutto sui social, pronti a scatenare il loro livore semplificatorio.
Se poi ci mettiamo la variabile italiana del folklore politico il gioco è fatto perché – come scrisse Enzo Biagi – “ho in mente gli aspetti folkloristici di quel tempo (il fascismo), nel nostro Paese una parte determinante l’hanno sempre avuta i buffoni”.
In fondo “costruire gli italiani” per il fascismo era farlo a danno di altri, da rendere inferiori, schiavi.
Prima gli italiani
“Prima gli italiani” in Etiopia significava razzismo totale: così le donne nere hanno contegni che le portano a “perdere molto dell’umano per portarsi assai prossimi a quelli degli animali” (Lidio Cipriani, antropologo) cosa che giustificava la totale sottomissione per cui “tutti gli indigeni, anche le donne, al passaggio dell’italiano debbono salutare rispettosamente; se no botte da orbi” (Vittorio Ambrosio, alto funzionario coloniale).
Quindi il razzismo italiano, che trovò poi uno sbocco assurdo nelle leggi razziali antiebraiche del 1938, era connaturato ad un fascismo straccione che nel discorso “prima gli italiani” nascondeva le debolezze di un popolo fatto ancora di emigranti, con debolezze strutturali rispetto ad altri pesi europei più avanzati, con sacche di arretratezza nel Sud ma anche in alcune zone del Nord.
Ecco che queste debolezze vennero nascoste usando la paura e l’odio verso il “diverso”, contro un complotto che minacciava la società italiana, magari alimentato da qualche miliardario di origine ebrea che agiva nell’ombra. Arrivando a forme di discriminazione capillare, odiosa verso i più deboli, con accuse risibili come quelle che gli ebrei “se la spassavano” nei luoghi di villeggiatura a danno degli italiani per la serie “questa pacchia deve finire”, che esercitavano clandestinamente il commercio ambulante e così via.
Tranquilli, niente di tutto questo può accadere
Tranquilli, niente di tutto questo può accadere, il finale non è noto o scontato, paventare anche solo una parte di tutto questo sarebbe antistorico, ma serve come promemoria. Ma un piccolo tarlo scava dentro.
Come ha scritto lo storico David Bidussa una grande parte d’Italia “ha introiettato nel profondo un distacco, anche emotivo, con la dimensione di essere gruppo collettivo e che, all’inverso, matura un’avversione per tutto ciò che significa comunità nazionale e dunque destino comune, sorte condivisa.
Per questa Italia, che probabilmente è la sintesi di un’ampia fetta di società civile, i conti non si pagano mai, perché ‘niente feci’.
Quel ‘niente’ testimonia del cinismo di chi crede di essere sempre assolto dalla storia, perché in coscienza si è limitato a ‘spostarsi’, una deliberazione per sé, che ancora riproporrà appena torneranno a soffiare nuovi e rinnovati venti di intolleranza”.