“Gabbana si scrive con una o con due B?”
Ebbene sì. Esattamente queste le parole pronunciate al telefono dalla ragazza seduta accanto a me sul treno ieri. Ora, vada pure che fossero le 7 di mattina, che non avesse la faccia particolarmente sveglia (non necessariamente a causa dell’orario), e che magari all’altro capo del telefono ci fosse un ignorantone (come insegnano Aldo e Giovanni sull’autobus della popolare gag, l’etimologia corretta è “ignorans, -antis”, propriamente “colui che ignora”) come lei, però io sono rimasta ugualmente basita.
Puoi esserti bruciata il cervello a guardare la “extended version” con contenuti inediti di ogni edizione de “L’isola dei famosi” da Enzo Paolo Turchi fino a Riccardo Fogli; puoi confondere gli accenti con gli apostrofi, scaricandone la responsabilità sul t9 di whatsapp; puoi perfino arrivare a pensare che il congiuntivo sia una malattia degli occhi. Tutto ciò, comunque, non ti giustifica e non ti giustificherà mai.
Siffatti pensieri mi hanno riportato con la mente al lontano 2006, anno in cui avevo sentito una frase del genere in un film: “il Diavolo veste Prada”, diretto da David Frankel e tratto dall’omonimo best-seller autobiografico di Lauren Weisberger, in testa alle classifiche del New York Times dei libri più venduti.
Due nomination agli Oscar, “miglior attrice protagonista” a Meryl Streep, e “migliori costumi” a Patricia Field, il film, che descrive impeccabilmente lo sfavillante mondo della moda, risulta una trasposizione abbastanza fedele del romanzo cui si ispira, sebbene in alcuni punti se ne distacchi: soprattutto, nella direzione di dare un taglio più “leggero” alla vicenda, eliminando alcune componenti “drammatiche”.
La trama
La neolaureata Andrea arriva a New York con il sogno di diventare giornalista. Dopo un colloquio presso una casa editrice che pubblica varie testate di successo, viene assunta come seconda assistente personale di Miranda Priestley, direttrice della rivista americana di moda più venduta al mondo, “Runway“, nonché guru e mito assoluto di stile.
Questa esperienza rappresenta per Andrea solo un lasciapassare per il mondo del giornalismo (non ha nessun gusto né conoscenze in fatto di stile, né aspirazioni in tal senso); ma, a poco a poco, si fanno strada in lei l’ammirazione per il talento di Miranda e l’attrazione verso accostamenti, tessuti, accessori di lusso e scarpe firmate, che la portano ad allontanarsi dagli affetti, trascurando famiglia, amici e il fidanzato Nate.
Nonostante le difficoltà iniziali, rinnovando il suo abbigliamento e il suo look, all’insegna dello stile modaiolo, Andy riesce ad ottenere numerosi successi: grazie all’aiuto del collega Nigel, comprende l’importanza di cose a cui non aveva mai dato peso prima. La maggiore consapevolezza di sè, la vivace intelligenza e le indubbie capacità rendono sempre più preciso ed efficiente il suo lavoro: addirittura, la ragazza arriva a sorpassare la prima assistente Emily nelle gerarchie di Miranda, ottenendo la possibilità di partecipare alla trasferta annuale a Parigi, in occasione della settimana della moda.
Ma l’ambizione e la carriera hanno il loro prezzo. In un mondo così competitivo e spietato, la ragazza sarà costretta a scegliere cosa sacrificare, per raggiungere i propri obiettivi.
Il commento
La protagonista assoluta è sicuramente la moda: da Valentino (che farà anche un’apparizione, interpretando se stesso), alle calzature di Jimmy Choo e Loubotin, alle borse di Chanel, ai tailleur di Gucci, agli accessori di Fendi e chi più ne ha, più ne metta. Per darvi un’idea del livello del fashion, vi dico soltanto che il regista ha precedentemente diretto alcuni episodi di “Sex and The City”: siamo nella stessa New York iperpatinata. Questa cornice proietta lo spettatore in una realtà in cui la maggior parte di noi, in misure differenti, è impelagata: inutile fare i perbenisti, l’apparenza, oggi, conta più della sostanza.
Come qualcuno ha detto, “non un film sul mondo della moda, ma una commedia ambientata nel mondo della moda”. È quindi il genere a dominare, con tutti i cliché del classico percorso di formazione: la novizia alle prese con un mondo di cui non conosce le regole, la collega ostile, il consigliere schietto e simpatico, il capo luciferino, i crucci affettivi e la necessità di trovare la propria strada.
Ottimi i personaggi di contorno. Da Emily Blunt, saccente e cinica, perennemente in guerra coi carboidrati, incarnazione della felicità puramente materialista, a Simon Baker (il Patrick Jane di “The mentalist”), che recita con brio il ruolo di un giornalista “piacione”. Eccezionale Stanley Tucci, che riesce sempre a caratterizzare i suoi personaggi con grazia, evitando di scadere nella macchietta. Alternando con abilità l’edonismo all’autoironia, il suo Nigel dimostra di aver compreso le complesse dinamiche di quella realtà dominata dal dilagante egoismo.
Anche Anne Hathaway non sfigura nei panni della prima goffa e trasandata taglia quarantadue – poi elegante, vestita all’ultimo grido, taglia quaranta. Ma Meryl Streep è cinema puro ad ogni espressione facciale: ispirato alla vera figura di Anna Wintour, guru della moda e direttore di Vogue, il personaggio di Miranda è un villain da applauso. Perfetta, glaciale, spassosa. Una sorta di Crudelia Demon che al posto di cuccioli dalmata preferisce scuoiare giovani assistenti.
Lezioni di moda (e di vita)
La sceneggiatura è divertente, non banale, in alcuni punti porta a riflettere. Perché questa, più di altre commedie americane, è un vero e proprio ritratto al vetriolo delle smanie contemporanee dell’apparenza. Una su tutte, la battuta che fa aprire gli occhi alla protagonista.
Miranda: “Non essere ridicola Andrea, tutti vogliono questa vita, tutti vorrebbero essere noi”.
Sicuramente, in molti sognano la parte divertente del mestiere: i party esclusivi, gli abiti griffati, una contropartita economica ottima, i privilegi tangibili. Ma nessuno sa che, dietro a tutto questo scintillio, si apre una strada difficile, fatta di sacrifici e rinunce, in cui è necessario tirare fuori una spiccata capacità di scendere a compromessi, soprattutto con se stessi. Non si può passare incolumi attraverso i riflettori delle passerelle senza vendere l’anima al diavolo. Specialmente, se il diavolo è firmato Prada.
Andrea: “Gabbana si scrive con una o con due B?”
Qualora qualcuno se lo stesse ancora chiedendo, Gabbana si scrive con due.