Tiresia sono. Il padre di Montalbano si racconta
Chiamatemi Tiresia. Per dirla alla maniera dello scrittore Melville, quello di Moby Dick. Oppure Tiresia sono, per dirla alla maniera di qualcun altro. Zeus mi diede la possibilità di vivere sette esistenze e questa è una delle sette. Non posso dirvi quale.
Inizia così Conversazioni su Tiresia, oggetto del mio pezzo di oggi. Si tratta di un lavoro teatrale scritto e interpretato da Andrea Camilleri – eclettico e irrefrenabile autore del popolare commissario –, rappresentato per la prima volta al Teatro Greco di Siracusa l’11 giugno 2018, passato nelle sale cinematografiche dal 5 al 7 novembre, ed infine approdato sul piccolo schermo il 5 marzo scorso (è stato trasmesso in prima serata su Rai Uno). Recentemente è stata pubblicata per Sellerio la sceneggiatura. Il soggetto è Tiresia, l’indovino cieco per antonomasia, punto di riferimento per tutta la cultura occidentale fino ai giorni nostri.
Camilleri e (è) Tiresia
Chi ci viene incontro, accompagnato da un ragazzo e da un flautista, e celebrato dalle note di The Cinema Show dei Genesis è Tiresia, o almeno il divinatore in una delle sue sette occorrenze terrene, come apprendiamo subito. Sì, perché Camilleri non si ferma ad una semplice mimesi, ma si eclissa totalmente in favore del suo personaggio – con il quale condivide davvero la condizione di cecità –, e assistiamo ad una immedesimazione quasi disturbante, che esula dal teatro in quanto tale. La vista perde la sua preminenza sugli altri sensi, ed anche il pubblico pian piano si appropria di questa mancanza, che, si scopre, poi mancanza non è più. Camilleri presta a Tiresia la sua voce ancestrale, vertiginosa, ipnotica, che ti risucchia in mondi lontani, che fa toccare, anche per un solo momento, l’assoluto. È la voce della Storia. È davvero Tiresia che parla.
Il rapsodo ci racconta la sua particolare esistenza, la giovinezza a Tebe, trascorsa in lunghe passeggiate sul monte Citerone. L’aver peccato inconsapevolmente di empietà, pagando a caro prezzo il sacrilegio (Tiresia, infatti, uccidendo la femmina di due serpenti – evidentemente Dei trasfigurati –, venne tramutato all’istante in donna). L’essere riuscito, dopo sette anni, a riottenere il suo sesso, e l’essere di nuovo vittima dell’ira divina, che stavolta lo accecò, non avendo avuto successo nel dirimere un contenzioso tra Zeus ed Era quanto mai attuale. Il tutto con un’ironia sagace e dissacrante non confinabile in coordinate spaziali o temporali, funzionale alla doppiezza ed al nascondimento che in prima persona subiamo sulla scena.
Tiresia ci parla poi del suo passaggio da persona a personaggio – altro tema portante dell’intero monologo – e della suo essere per natura divisivo, dell’aver avuto una schiera di detrattori moralistici bilanciati da illustri apologeti. Le sue occorrenze letterarie e cinematografiche partono quindi da Omero e Sofocle per arrivare a Pasolini e Woody Allen, passando per Virginia Woolf, Ezra Pound e Thomas Eliot.
Teatro, cinema, televisione
Le parole hanno attorno un alone sfumato, una nebbia continua. La stessa nebbia che mi circonda. Ma in questa nebbia in cui sono immerso quello che vedo è estremamente chiaro. Forse la vista mi distraeva dal pensiero.
(Andrea Camilleri, da un’intervista a Raffaella De Santis, La Repubblica, 26.5.2018)
L’importanza del suono della parola, che risuona nel buio e diventa palpabile, riproduce quella tradizione orale – o meglio, aurale, dato che scritto e parlato convivevano – tipica del mondo antico. Camilleri cita in questo senso il teatro d’avanguardia di Grotowski, secondo cui tra attori e pubblico si instaura un rapporto viscerale, che si dispiega non tanto a mezzo immagini, quanto tramite l’essere stesso degli attori sul palco, un essere completo, a tutto tondo, in cui la veste sonora della parola ha un’importanza fondamentale. Per questo credo che la resa in chiave televisiva e cinematografica dell’opera sicuramente le va a togliere qualcosa, anche al netto dell’eccellente regia.
Davanti al dolore degli altri
O sangue sacro! Non sanno quale fiume tu sei, non si tuffano mai nelle tue profondità vitali, dove sono estinti il dolore e la follia. È il dolore degli uomini che da fuori con sordo alito scuote il mio corpo; nel mio sangue fiorisce il mondo e le stelle si levano e tramontano.
(Hugo von Hoffmannsthal, Edipo e la Sfinge, Rizzoli 1990)
Tiresia ci rivela che il dono della preveggenza, di cui era stato beneficiato da Zeus dopo la privazione della vista inflittagli da Era, non tardò a rivelarsi una vera e propria condanna. L’indovino cessò di trovarsi tra uomini, ma immobilizzato in un intrico di destini ricolmi di dolore. Era diventato totalmente permeabile al dolore degli altri, ostaggio delle pene che si nascondevano dietro l’umana speranza di chi vuole sbirciare pezzi del proprio futuro. Il tema è senz’altro attuale. Lo stillicidio delle disgrazie altrui paralizza, annienta e uccide, soprattutto quando l’esposizione, quindi la nostra vulnerabilità, è massima. Susan Sontag addirittura proporrebbe una sorta di ecologia delle immagini, come modo per depotenziare la parata di tragedie di cui siamo – nostro malgrado – spettatori fissi (Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori 2003). L’insediarsi progressivo dell’indifferenza è l’inevitabile e comprensibile contromisura, è la vita di chi resta che vuole vivere. Ma anche l’indifferenza, quando diventa ipertrofica, incancrenisce e uccide la vita che la accoglie. Prescindendo dal riconoscimento con l’altro, si diventa sconosciuti anche a noi stessi: l’ultima vertigine sull’orlo del baratro.