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Non ce la faccio, troppi ricordi

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Non ce la faccio, troppi ricordi

Il simposio di Platone, il mito delle metà, lo conoscete?

Secondo Platone, l’uomo una volta era così, come questa mela, perfetto. Bastava a se stesso ed era felice. Non c’erano distinzioni fra uomini e donne. C’erano soltanto questi individui perfetti e felici.

Solo che un giorno Zeus era geloso della loro perfezione… e zac.

Da quel giorno, l’uomo ha cominciato a cercar disperatamente la propria metà, perché da solo si sentiva incompleto e infelice. Ma per quanti tentativi facesse, non riusciva mai a trovare la sua metà esatta. E non ce la fa tuttora, perché praticamente è impossibile trovar la propria metà e riconoscerla. Ci vorrebbe un miracolo.

Ecco. Credo di essermi innamorata di Platone da quando ho visto per la prima volta questa scena, nella quale i tre galoppini de “Il Paradiso della Brugola” hanno saputo descriverlo meglio di chiunque altro.

Ebbene sì, cari lettori, oggi rispolvererò una delle pellicole comiche che hanno segnato l’infanzia della generazione ’80 e ’90: Tre uomini e una gamba”, l’esordio cinematografico di Aldo, Giovanni e Giacomo arrivato nei cinema italiani più di vent’anni fa, il 27 dicembre del 1997, incassando la bellezza di oltre 40 miliardi di lire.

La trama

Tre commessi di un negozio di ferramenta milanese dal nome improponibile (vedi sopra) appartenente al suocero di Aldo e Giovanni, che hanno sposato due delle figlie del padrone, partono in auto per Gallipoli, dove Giacomo sposerà la terza.

Un ulteriore motivo del viaggio, che, agli occhi del suocero (il tirannico Cecconi), sembrerebbe essere il più importante, è la consegna a quest’ultimo di un suo recente acquisto: una gamba da trecento milioni di lire, scolpita dall’artista della transavanguardia Garpez, in punto di morte, su cui egli intende speculare. Un pezzo di oggettivo pessimo gusto, ma chi ne capisce poi nulla del contemporaneo (da leggere rigorosamente: che il vostro falegname, “con trenta mila lire, la fa meglio”).

Naturalmente, il viaggio subirà più di qualche rallentamento: tra un tamponamento con colpo di fulmine del futuro sposo che si innamorerà della bella Chiara, e un ricovero in ospedale, passando per una partita di calcio memorabile. Ma, alla fine, i tre capiranno che le angherie del dispotico suocero devono finire: che la vita abbia in serbo per loro più di quanto potessero immaginare?

Il trio delle meraviglie

Parliamo di (Cat)Aldo BaglioGiovanni Storti e Giacomo Poretti: tre attori che si sono fatti le ossa partendo dal cabaret nei villaggi, passando dai teatri fino ad arrivare alla televisione e ottenendo il successo grazie a programmi come “Mai dire gol”, dove hanno mostrato appieno tutte le loro potenzialità umoristiche. In quel momento, grazie alla popolarità raggiunta, il loro spettacolo “I corti” venne trasmesso su Canale cinque.

“Tre uomini e una gamba”, diretto assieme a Massimo Venier (con una sorprendente regia ad otto mani), sembra un vivace college di sketch tenuti insieme dalla simbiosi ormai inestricabile. Ecco perché all’interno del film ci sono tre cortometraggi del tutto scollati dalla storia principale, ognuno con un tono diverso e un rimando ben preciso ad un genere cinematografico. Dalla scena epica di Ajeje Brazorf sul tram, a quella del conte Dracula, passando per i personaggi della mafia americana Al, John e Jack, che riappariranno cinque anni dopo nell’omonimo film.

Il trio è ben assortito, legato da un’alchimia non comune e da una perfetta miscela tra impeto siculo e cinismo milanese. Ad Aldo, tocca la parte del siciliano (“terùn”) naturalizzato Madonnina, tonto e bonaccione, sempre al centro delle prese in giro degli altri due; Giovanni è invece un pignolo “so-tutto-io” con la battuta sempre pronta e un’ironia pungente (bastardo dentro, il mio preferito); Giacomo, infine, è un ipocondriaco isterico con velleità da intellettuale. Il loro accento, le continue scaramucce e le situazioni assurde in cui si cacciano sono gli elementi principali che determinano la loro frizzante comicità.

I tre piacciono al pubblico di ogni sorta perchè nel loro curriculum non ci sono le parole “banalità” e “volgarità”. Bensì una ineguagliabile capacità di strappare sorrisi con molta spontaneità e intelligenza. E lo dimostra l’enorme incasso ottenuto al botteghino. Questo film, insieme ai successivi “Così è la vita” del 1998 e “Chiedimi se sono felice” del 2000 fa parte di una trilogia diventata ormai un imperdibile cult nel panorama cinematografico italiano.

Il commento

Il film rappresenta una filosofia di vita che è a cavallo fra il mondo dei ragazzi e quello degli adulti della mia generazione. Mette di fronte responsabilità e divertimento, con il fare scanzonato di chi è capace di mescolare le carte. Una tela di emozioni che si completano come colori in un dipinto: per questo, a più di vent’anni dalla sua uscita, si parla ancora di una pietra miliare della comicità italiana.

Sotto l’apparente struttura di un semplicissimo road-movie sull’autostrada da Milano a Gallipoli, si intersecano una serie impressionante di macchiette e battute. Fra belle sequenze e spunti comici, una serie di citazioni che non appesantiscono: le acrobazie in acqua tipiche di Esther Williams, la partita a pallone sulla spiaggia come “Marrakech Express” di Salvatores ed il furto della gamba ai danni di un gruppo di muratori di colore travestiti con le maschere di alcuni celebri politici italiani, evidente parodia di “Point Break”.

Il tema del viaggio come crescita personale, che cambia la vita del protagonista, non è una novità. Tuttavia, i buoni sentimenti garantiscono una visione piacevolissima e, a distanza di anni, questo piccolo gioiello del made in Italy risulta ancora capace di scatenare risate a non finire, ma anche ricordi. Malinconico nei punti giusti, e riflessivo, perché pesca con arguzia nel background del cinema nostrano e non. Si dimostra anche una efficace e gustosa cartolina di un’Italia alla fine degli anni ’90.

Insieme ai tre, il cast vanta anche Marina Massironi, nei panni di Chiara, la quarta (in) gamba, e Carlo Croccolo, nel ruolo del terrificante Cecconi. Compare, inoltre, una Luciana Littizzetto giovanissima, che aveva legato con il trio di comici a “Mai dire gol” e che nel film presta il volto alla fidanzata di Giacomo, l’ultra-petulante Giuliana.

La canzone del film

Come in ogni buon viaggio che si rispetti, la scelta della musica da ascoltare in auto è un momento fondamentale. Da “Anima mia” dei Cugini di campagna, un classicone che Giovanni prontamente vola fuori dal finestrino, a “Luci a San Siro” di Roberto Vecchioni, canzone simbolo di una Inter ormai andata, lacrimoni. Per finire, l’aria “Vesti la giubba” (meglio nota come “Ridi, pagliaccio”), dall’opera di Leoncavallo, qui interpretata da Luciano Pavarotti.

Altre due melodie fondamentali nel film: una è il jazz di “Che cos’è l’amor” di Vinicio Capossela, che fa da sfondo alla partita Italia-Marocco. L’altra è “Ho imparato a sognare” dei Negrita, che accompagna l’avvicinarsi alla meta e alla scelta finale che potrebbe cambiare le loro vite. Così, dopo peperonate alle otto del mattino, assurde capriole in autogrill e coliche renali davanti ad un film neorealista, il trio scopre il bello del non accontentarsi, impara a sognare e fa retromarcia, dando le spalle ad una mesta vita di comode ma tristi sicurezze.

Ma “Tre uomini e una gamba” soprattutto mostra al pubblico rapporti semplici, autentici, puri. Chi non vorrebbe fare un viaggio del genere? Chi non vorrebbe due compagni con cui dividere mille avventure e, quando necessario, anche i sentimenti più importanti? Chi non vorrebbe incontrare la propria metà della mela così, quando meno te lo aspetti?

Con una nostalgia immensa, che proveremmo anche noi, oggi, riguardandoci la VHS di “Tre uomini e una gamba”. Non ce la faremmo, troppi ricordi.

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