La “Mossa Kansas City”
Oggi, dopo la breve pausa pasquale, mi sento particolarmente rigenerata, così risponderò in mondovisione al messaggio di un (affabilissimo) amico che, nel farmi gli auguri, mi ha domandato di esprimere la mia (“spocchiosa”, cito testualmente) opinione sul suo film preferito: “Lucky Number Slevin”.
Mio caro, forse chi scrive seriamente ti avrebbe redarguito per quell’aggettivo, pregandoti di esporre critiche costruttive, motivarle, arricchirle di dettagli a fini migliorativi, e blablabla. Ma chi ci crede veramente in queste cose? Io stessa biasimo, mormoro, stronco, stigmatizzo solo per il puro gusto di farlo, ormai mi conosci. E siccome non scrivo seriamente, ma tu mi leggi, oggi sarò spocchiosissima, solo per te (faccina sarcastica seguita da cuoricino verde).
Dunque, iniziamo. Passato in sordina nelle sale italiane a causa dell’infelice programmazione estiva (uscì il 18 agosto del 2006) con l’impacciata traduzione “Slevin – Patto criminale”, il film ha goduto comunque di un discreto successo in home-video, quando ancora esistevano i videonoleggi. Certo, l’avvio non è dei più coinvolgenti, perché si stenta a comprenderlo e trovarvi una logica. Parrebbe uno dei soliti, mediocri, assurdi film sconclusionati, ma tale non è, in realtà.
La pellicola parte con un flashback, un’incursione negli anni ’70: una corsa truccata, un cavallo dopato, una scommessa che vale una vita. Anzi, tre vite, un’intera famiglia massacrata per il debito di gioco proprio in quella corsa. Continua, poi, in modo piuttosto incongruo, con la promessa di una fantomatica “Mossa Kansas City” messa in atto da un personaggio misterioso, su un inconsapevole giovanotto di nome Slevin.
La trama
All’aeroporto, un certo “Smith” racconta una storia ad un ragazzo seduto vicino a lui: vent’anni prima, nel 1979, un uomo di nome Max venne a conoscenza di una corsa truccata all’ippodromo di Aqueduct. Decise pertanto di scommettere 20.000 dollari sulla vittoria del cavallo che sapeva essere dopato, ma l’animale morì durante la corsa, e i creditori di Max si vendicarono su di lui e su tutta la sua famiglia.
Nel frattempo, Slevin Kelevra è l’uomo sbagliato al momento sbagliatissimo. Arrivato a New York in visita all’amico Nick Fisher, viene scambiato per lui, scomparso misteriosamente.
La sfortuna vuole che dallo scambio di persona derivino solo guai. Slevin, infatti, si ritrova in poche ore minacciato dalle due bande rivali della città, “gli abbronzati” del Boss, e “i circoncisi” del Rabbino, a cui l’amico Nick deve molti soldi. L’uno lo assolda per uccidere l’erede dell’altro: afroamericani ed ebrei in una guerra all’ultimo sangue fra assassini e malavitosi.
Tutto sembra ormai perduto quando, in un turbinare di eventi, ogni tassello torna al suo posto, per svelare una sola, sconvolgente verità.
Il più classico degli equivoci
Uno scambio di persona, di cui è vittima il protagonista. Slevin si presenta in scena con un naso rotto, una faccia tosta grande come una casa e una sagacia tanto irritante quanto affascinante: non è possibile non amarlo fin da subito. Il giovane è picchiato a ripetizione nella prima mezz’ora. Ogni volta si rialza, scherzando. Atarassia, dice. A memoria, è la prima volta che si ascolta in un film questa parola (adoro!) che per gli Epicurei dell’antica Grecia indicava l’imperturbabilità. Il suo è infatti uno stato di perenne mancanza di preoccupazione, che risulta maledizione e salvezza insieme: perché se la causa dei suoi guai è immancabilmente la sua lingua lunga, è anche vero che egli sa abilmente districarsi, a parole, in ogni situazione.
L’ottimo sceneggiatore Jason Smilovic ha studiato bene i film di Tarantino: lo si sente nei dialoghi e nei sofismi sull’orlo del paradosso, nella sapiente distribuzione dei colpi di scena, nei ribaltamenti di prospettiva, nella tecnica delle apparenze che ingannano. Dialoghi dissacranti, brillanti e serratissimi, toni surreali. Ogni piccolo dettaglio filmato è un elemento chiave servito allo spettatore col gusto del poliziesco anni ’50 a cui si ispira dichiaratamente: quell’ “Intrigo internazionale” girato da Hitchcock nel 1959.
Un complesso gioco di specchi, un rompicapo, un curioso incrocio tra gangster-movie, noir e commedia nera, in cui niente (e nessuno) è come sembra. Ritmo avvincente, sostenuto da un montaggio da capogiro. Un frullato di flashback, split-screen, piani temporali incrociati che si incastrano con precisione millimetrica.
Sullo sfondo, una New York impietosa con tappezzerie anni ’70 e un cielo plumbeo: qui la lotta di potere fra le due bande è simboleggiata dai palazzi in cui vivono prigionieri di se stessi i due “capi” da vent’anni, nel tentativo di sfuggire alla reciproca vendetta. Moderne torri medievali, inespugnabili nelle loro altitudini, a fronteggiarsi nel cuore della città.
Insomma, l’espediente dell’uomo sbagliato al momento sbagliato è solo un pretesto per introdurre lo spettatore in un vortice di equivoci e situazioni al limite della farsa, che seducono e ammaliano, attraverso il forte charme emanato dai grandi interpreti della pellicola. Quelli sì, ognuno al proprio posto, dal sicario Willis alla vicina Liu, dal boss Freeman al rabbino Kingsley, fino allo “sventurato” protagonista, un apprezzabile Hartnett.
Un cast stellare
Josh Hartnett, che ricordiamo per lo sguardo da cucciolo ferito in “Pearl Harbor”, o come poco convincente in “40 Giorni 40 Notti”, ha finalmente trovato un ruolo nel quale sentirsi totalmente a suo agio. Qui, il giovane attore californiano sfoggia con inatteso mestiere una adorabile faccia da schiaffi, da impunito col cerotto sul naso.
Abbiamo il gangster, anzi ne abbiamo due. L’uno, il Boss, è a capo di un’organizzazione di neri, l’altro, il Rabbino, comanda un gruppo di ebrei. Il regista scozzese Paul Mc Guigan non si è fatto sfuggire l’occasione di ironizzare su due minoranze etniche ed è felice, a suo dire, di aver proposto “per una volta criminali organizzati che non fossero italo-americani”. Ma non ci annoia riproponendo il classico stereotipo del capo mafioso, bensì presenta entrambi sopra le righe, carismatici e particolari. Non manca l’ironia nel delineare i due personaggi, che risultano volutamente esagerati e caricaturali, e tuttavia non si discostano da quelli che sono i motivi della vendetta e dell’ambizione. Confronto che ha del notevole tra un Morgan Freeman in forma ed un Ben Kingsley ispirato.
Abbiamo, ancora, il “killer fuoriclasse”, il freddo e inamovibile Goodkat, interpretato da uno strepitoso Bruce Willis, che, col suo tirare i fili della situazione, aggiunge nuovi enigmi a cui trovare risposta. Enigmi che la “ragazza della porta accanto” non manca di analizzare: una insolita Lucy Liu, che, pur riuscendo nell’intento di risultare sbarazzina, non è esteticamente adatta alla parte, con i suoi lineamenti troppo seri e raffinati.
Tutti loro sono attori perfetti, volenti o nolenti, di questa vicenda, che, come precisa l’incipit, coinvolge molte persone, in modi che nessuno di loro potrà più dimenticare.
Qual era il nome del cavallo?
Ma, alla fine dei giochi, che cos’è la “Mossa Kansas City”? Loro guardano a destra, tu vai a sinistra. Ma loro chi? Non fare troppe domande. “E dire che allora…”. No, nessuna domanda, nessun dubbio, nessuna incertezza. La “Mossa Kansas City” è così. Fredda, agile, pratica, pura sopravvivenza. Loro guardano a destra e tu vai sinistra. Semplice.
Tradotto: la vita ti fa guardare a destra, il cinema ti fa andare a sinistra. La vita ti propone un modello, un percorso, una serie di regole cui attenerti, mentre il cinema ti ricorda che la vita può essere diversa, te la sintetizza a margine, e te la spiega, o almeno ci prova. Visto? Loro guardano a destra, e tu vai a sinistra.
Gli spettatori, con “Lucky Number Slevin”, potranno godere di una strepitosa lezione sulla “Mossa Kansas City”, tenuta dal sicario Goodkat nei primi dieci minuti della pellicola. Alla fine di questi, però, sarà una sola la domanda che comincerà a ronzarvi in testa fino alla fine della proiezione: “qual era il nome del cavallo?“