Spesso si sente parlare di mente e corpo come di due entità completamente distinte. “Non nutrire solo il corpo, nutri anche la mente”, “Fisicamente mi piace, ma non ci troviamo di idee”, “Il tuo benessere mentale è importante tanto quanto quello fisico”, “Mentalmente mi prende, ma manca attrazione fisica”, e potremmo andare avanti per giorni.
Il nostro corpo è evidente tanto a noi che lo abitiamo quanto a tutti coloro che si ritrovano ad osservarlo e, simmetricamente, siamo consapevoli della tangibilità dei corpi altrui. Per quanto riguarda la mente, invece, la questione si fa meno chiaro: la nostra consapevolezza vacilla.
Che cos’è la mente? Si potrebbe sostenere che sia la nostra anima? O la nostra volontà? E dove si trova, nel cervello?
Al di là di tutte queste spinose domande, ciò che si vuol sottolineare nel presente articolo è che non si può essere pienamente coscienti della propria mente – ce l’ha insegnato Freud con la teoria dell’inconscio – né tantomeno possiamo esserlo delle menti altrui, che sfuggono alla nostra possibilità di indagine empirica. Il punto non è l’esistenza della nostra mente o di quella delle altre persone, ma la mancanza di un senso – come la vista fa con i corpi – in grado di catturarne la singolarità.
Quello del dualismo mente-corpo è un problema filosofico che storiograficamente si fa risalire al filosofo seicentesco Cartesio, anche se ha radici ben più profonde. Il filosofo francese era ossessionato dall’idea di come la nostra mente – per inciso, la volontà – potesse determinare effetti corporei quali il nostro movimento e, parimenti, come il nostro corpo potesse assorbire impulsi del mondo fisico e tradurli nei sentimenti e nelle emozioni che abitano il nostro Io.
In che modo la dimensione mentale e quella fisica possono interagire fra loro, permettendo all’uomo di esprimere ogni sua potenzialità?
Cartesio credette di risolvere il problema elevando la ghiandola pineale, situata al centro della scatola cranica, al rango di mediatrice fra queste due realtà. Una soluzione che non soddisfò alcun filosofo a lui successivo, perché non si può collocare in uno spazio fisico una sostanza spirituale quale è la mente, o l’anima, immateriale per definizione. Né si può pensare che possa esserci un contatto fisico fra una sostanza materiale (il corpo) e una che invece non lo è (la mente), pena l’appiattimento della natura di quest’ultima.
A onor del vero, nemmeno le soluzioni proposte successivamente poterono vantare argomenti cogenti. Malebranche sosteneva, ad esempio, che la natura corporea e quella spirituale dell’uomo interagissero a causa di un continuo effetto divino, giacché ogni atto di volontà dell’uomo che si traduceva nella relativa azione fisica fosse in realtà un’occasione di intervento per Dio. In poche parole, non è la mia volontà di afferrare quella mela che causa strettamente la corrispettiva azione fisica, ma è Dio che interviene causalmente, facendo in modo che possa afferrare quella mela.
Neanche la soluzione dell’armonia prestabilita di Leibniz ebbe maggior fortuna. In questo caso l’intervento divino avrebbe avuto luogo solo all’inizio della vita di un uomo e sarebbe stato sufficiente a programmarla interamente, facendo coincidere ogni atto di volontà con la relativa risposta corporea. Tornando all’esempio precedente, non è la mia volontà che determina l’azione di afferrare quella mela, ma l’intervento divino iniziale che ha programmato la simultaneità di quel mio atto di volontà e della corrispettiva azione fisica.
Se siete giunti sin qui con la speranza di trovare una risposta a questo affascinante enigma “umano”, debbo deludervi.
Tuttavia è innegabile che corpo e mente interagiscono continuamente e che, giorno dopo giorno, contribuiscono alla costruzione dell’identità del proprio Io. Come due facce di una medaglia che non si vedono e, dal nostro punto di vista, non si toccano, ma rendono quella medaglia quel che è: ne definiscono l’essenza.
Una connessione intrinseca che sfugge alla nostra comprensione e che solo allontanando il nostro punto di vista saremmo in grado di cogliere. Come per i problemi più banali, allontanandosi dal caos dell’immediatezza, è più facile maturare uno sguardo maggiormente distaccato, in grado di scrutarne le complessità e, se non di risolverle, almeno di conviverci.