Il tempo è denaro
Così recita un conosciutissimo detto popolare. Un modo di dire che vostra madre, o chi per lei, vi avrà ripetuto per spronarvi a non perdervi in inutili giochetti di pigrizia e adoperarvi per migliorare operosamente il vostro stato personale e sociale.
Prendere questa affermazione come una verità universale non è facile, perché il tempo sarà anche denaro, e nessuno è così sciocco da volerlo perdere volontariamente, ma sprecarne un po’ogni tanto cosa ci costa?
Beh, si tratta di un lusso che, se vivessimo nel mondo creato dal film di cui vi parlerò oggi, non potremmo di certo permetterci. Chi avrebbe detto infatti che un giorno in una pellicola proprio questa massima potesse diventare la base del sistema economico e sociale del mondo intero? È quello che ipotizza il regista e sceneggiatore Andrew Niccol, nel suo “In Time” (2011).
La trama
Anno 2169. Gli individui sono geneticamente programmati per invecchiare soltanto fino a venticinque anni. Appena compiuti, sul braccio di ognuno, un timer inizia un conto alla rovescia, che dura solo un altro anno, al termine del quale si muore. Questo limite può essere esteso, permettendo di vivere ancora, se si riesce a guadagnare altro tempo.
Will Salas vive con la madre nel ghetto, la poverissima “Zona 12”, in cui si campa alla giornata (anzi, al minuto), cercando di procurarsi in ogni modo un altro po’ di tempo. Intorno a lui, l’inflazione (temporale) cresce, gli stipendi calano e sempre più persone perdono la vita.
Una sera, in un bar, il ragazzo conosce il ricco Henry Hamilton, intento ad offrire da bere per spendere tutto il proprio orologio, che segna più di un secolo. Alcuni criminali cercano di derubare Hamilton, ma Will lo aiuta a fuggire. Ormai convinto di voler morire, Hamilton, mentre Will dorme, gli regala tutti i suoi centosedici anni di vita.
La sera successiva, la madre di Will, esaurito il proprio tempo causa inflazione, muore fra le sue braccia. Will decide allora di sfruttare il patrimonio ottenuto per andare a New Greenwich, nella “Zona 4”, la più ricca. Mentre è al tavolo verde a giocare d’azzardo, fa la conoscenza del magnate Philippe Weis e della sua bellissima figlia Sylvia: con una sola partita a poker, Will riesce a guadagnare altri novecento anni.
E, come spesso accade, avvenimenti imprevisti hanno il potere di cambiare anche ciò che può sembrare irreversibile. Così, inaspettatamente omaggiato di tutta quella ricchezza, Will si trova di fronte ad una scelta difficile da gestire: godere del proprio benessere o agire per mutare l’iniqua divisione del tempo?
Il commento
Se nelle economie primitive esisteva il baratto, sostituito dal denaro circolante in tutte le sue forme, la mente di Niccol immagina uno scenario nel quale un countdown fluorescente è inserito nell’avambraccio di ogni individuo, e il valore di beni e servizi si compra con il proprio tempo. Al raggiungimento dei venticinque anni, si avvia il conto alla rovescia, e ognuno ha un anno per capire come guadagnarsi ogni respiro. Il momento in cui l’orologio elettronico comincia a correre è lo stesso in cui quello biologico si ferma, congelando l’aspetto fisico. Nessuno vuole invecchiare, tutti vogliono poter vivere in eterno e alcuni sono addirittura convinti di meritarsi l’immortalità.
Un’idea del genere affascina all’istante, e si apre anche a paesaggi sociologici inquietanti. Pensandoci bene, lo scorrere del tempo è una delle poche cose rimaste che l’uomo non può far altro che subire. Molti i sottotesti sparsi nella sceneggiatura: dalle risalenti ricerche degli alchimisti (l’immortalità) alle esplorazioni letterarie di Goethe e Wilde (la bramosia di onnipotenza del Faust e l’ossessione dell’eterna giovinezza di Dorian Gray). Anche il regista perlustra deviazioni e derive del genere umano che strenuamente tenta di opporsi alle leggi vigenti in natura.
Accattivante la deriva estrema che fa del mondo un meccanismo piegato alla finanza. Interessante l’indagine sui luoghi comuni legati al tempo, perché il film ci entra dentro, li rovescia, li fa esplodere di senso: dal classico e reiterato “non perdere tempo”, al “guadagnare tempo”, fino al più profetico e romantico “si può fare tanto in un giorno”. Il problema sono, come sempre, le polarità: il troppo, votato alla noia di un’immortalità più da difendere che vivere, e il poco, sottomesso all’infelicità della sopravvivenza e dell’ingiustizia.
Una pellicola complessa, in cui i nessi con il mondo attuale, specialmente in tempi di crisi economica e di disuguaglianze, risultano evidenti. Si presenta come film d’azione, con il giusto grado di adrenalina, che riesce certamente ad intrattenere, ma forse meno a conquistare emotivamente.
Niccol come sceneggiatore per altri registi si è dimostrato geniale (pensate ad un capolavoro come “The Truman Show“, per cui ha ricevuto la nomination all’Oscar) ma gli script che porta egli stesso sul grande schermo sono spesso deboli. Le poderose idee di partenza sono armi a doppio taglio, perché non fanno sconti alla solidità dello sviluppo. Senza avambracci numerati, questa è la semplice storia di due fuggitivi che tentano di rovesciare un sistema classista, rapinando banche e distribuendo ricchezza ai poveri. Ovviamente, tutto al netto della fotografia di Roger Deakins, che fa la sua solita, porca, figura e garantisce un minimo sindacale di eleganza per tutta la durata del film.
I personaggi
Dal momento che tutti i personaggi nel film mostrano venticinque anni, anche se ne hanno cento, “In Time” è un film senza vecchi. Un film dove tutti i personaggi sono forever young. Giovani, carini, molto glamour. Qualcuno ha visto in ciò il limite del film, e invece per altri è vero l’opposto: l’opera svela la ferocia del capitalismo usando i mezzi e i linguaggi con cui il capitalismo stesso mette in atto le proprie pratiche di fascinazione.
Nelle città di “In Time”, i muri di Berlino si moltiplicano, valicabili soltanto pagando un salato pedaggio, e volti a creare ghetti, ceti e classi sociali dove la distanza tra agio e povertà diventa geografica. In questo mondo, l’eroe imperfetto (destinato sicuramente a sostenere un conflitto morale più intenso), veste suo malgrado i panni laceri e impolverati di un Clyde romantico, costantemente affiancato da una sexy Bonnie, dal cuore impavido.
I protagonisti, pur rappresentando il nuovo oggetto del desiderio, dimostrano, ahimé, di non possedere ancora le furbizie dei mestieranti. Justin Timberlake, tutto sommato convincente, dimostra una maturazione sempre più evidente. A franare è una irriconoscibile Amanda Seyfried, in un ruolo che però non le offre alcuna possibilità di colorire il personaggio. Il migliore in scena, come spesso gli capita, è Cillian Murphy, dal talento sprecato nella parte del poliziotto troppo ligio al suo compito di tutore di una legge iniqua.
Un mondo (apparentemente) perfetto
Un mondo perfetto, in cui si può restare giovani e belli per sempre, apparentemente. Ma, come in ogni costruzione gerarchica, solo pochi eletti possono usufruire realmente di questa possibilità. Per tutti gli altri, si tratta solo di una costante lotta per la sopravvivenza. Non tutti sono uguali nel futuro non troppo lontano di “In Time”, non tutti valgono.
Con la scomparsa del denaro, non scompaiono le ingiustizie: infatti le persone ricchissime possono vivere anche per più di un millennio, mentre i poveri sono destinati ad una morte prematura. Vivere con lentezza contraddistingue chi può anche permettersi di sprecare tempo, perché ne possiede moltissimo. Chi ne ha tanto ne ha sempre di più, chi ne ha poco ne ha sempre meno e non può salvarsi. Un’impietosa equazione regge l’intera pellicola: opulenza e ricchezza sono il risultato di povertà e sofferenza.
Dove c’era il codice degli internati ad Auschwitz, ora c’è il tempo che resta: anni, giorni, ore e secondi tatuati sul braccio. Se il led si spegne, ti spegni tu. E quel codice, pure universale, confessa un altro ghetto: il tempo è veramente denaro, per chi ne ha secoli, e per chi vive alla giornata.