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Preparativi di viaggio: quell’insana passione per “la lista”

VascoNonStopLive 019: il Kom si prepara ad incantare Cagliari

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Anche il capitolo San Siro si è chiuso. La malia che Vasco ha lanciato sulla Scala del Calcio, che ha condotto 57500 spettatori – tra cui anche il sottoscritto – per ben 6 sere, a dirigervisi ipnoticamente, si è rotta altrettanto misteriosamente di come è stata formulata. Ed ora il carrozzone di Vasco si sposta, con notevoli sforzi logistici, all’Arena Fiera di Cagliari per una doppia data – 18 e 19 giugno –, che segnerà la fine del tour 2019 del rocker. Fine che, inutile dirlo, sarà solo l’inizio di un nuovo conto alla rovescia per rivedere il Kom calcare altri fibrillanti palcoscenici.

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Impressioni a caldo

Sarà un live duro e puro, perché duri sono i tempi e puro sono io.

Queste le parole con cui Vasco ha presentato in conferenza stampa i live di San Siro. Parole che ho ritrovato in ciò che ho avuto la fortuna di vedere e sentire. Il concerto è senza dubbio di matrice punk-rock, con inflessioni verso l’heavy, e pieno di pezzi che il rocker di Zocca ha ripescato dal suo repertorio anni Ottanta. Il che per me non è un caso. Quegli anni sono un po’ le estensioni radicali dei nostri, e forse – per quanto paradossale – dovremmo cercare anche in quell’humus i componenti che formano la genealogia del nostro tempo: idea di crisi, disorientamento, rivendicazione della novità che novità non è, perdita di senso storico.

Dopo l’inversione metal del 2014 e quella industrial del 2018, assistiamo quindi ad un’ulteriore rivoluzione copernicana, o quantomeno ad una sorta di regressus ad originem. L’attitudine punk permea tutto il concerto, che appare immerso in un’atmosfera distopica. È come se il presente, che sembra non scordarsi mai di mostrare la sua faccia peggiore, sia stato pressato e incanalato in segnali sonori e visivi. Nei maxischermi appesi alla struttura del palco si avvicendano un corvo, iridi di vari colori, lapilli di lava, un inesorabile count-down a precisione atomica per la fine del mondo, autostrade vorticose e tridimensionali. Dagli amplificatori escono suoni ruvidi, a volte disturbanti, che non chiedono certo il permesso per entrarti nelle viscere.

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Il concerto

brani in scaletta sono 29. Che sono anche gli anni passati dal primo concerto allo stadio milanese (era il 10 luglio 1990 e il tour era quello di Fronte del Palco), così come il numero di concerti, contando queste ultime 6 date, suonati a San Siro. La quadratura del cerchio.

Si parte con Qui si fa la storia, pezzo bandiera dell’intero concerto, e ciò che colpisce prima di tutto non è l’imponenza del palco – 100 metri in larghezza e 33 in altezza –, che pure si manifesta all’improvviso a confronto delle figure umane che lo calcano, ma riconoscere il nostro riflesso negli occhi di un Vasco-Peter Pan, che dopo più di quarant’anni di attività ancora non hanno ceduto quella sorta di bioluminescenza timida e genuina, ma non per questo meno affamata.

Si prosegue con Mi si escludeva (in una versione completamente riarrangiata), secondo lo stesso Vasco «una canzone che si sta realizzando in modo drammatico». Insieme a Buoni o cattivi, rappresenta un momento squisitamente politico, contro ogni manicheismo e dogmatismo oscurantista. La setlist va avanti in apnea, convulsa e rabbiosa, fino al momento del primo respiro: l’interludio strumentale affidato alla poliedricità di Beatrice Antolini ed al talento compositivo ed esecutivo di Stef Burns.

La seconda parte del live ha arie più corali-generazionali, ma non rinuncia a regalarci diverse sorprese: si pensi a Se è vero o no ed Io no – che il Kom non cantava a San Siro dal 2003 –, oppure a brani anni Ottanta come Ti taglio la gola – eseguita solo nel tour 1985 di Cosa succede in città – e Tango… (della gelosia) – che non veniva portata in tour per intero dal live di Fronte del Palco, 1991.

Sul finale, non sono più solo gli occhi di Vasco a brillare: con Sally, il flash di quasi ogni telefono dello stadio si accende, ed è come se l’iridescenza di uno sciame di lucciole divenisse palpabile. Sulle note di Canzone, dedicata a Massimo Riva – “compagno di avventure” di Vasco e coautore di una parte consistente del suo repertorio, scomparso prematuramente vent’anni fa – e a tutti quelli che non ci sono più, sono i nostri occhi invece a illanguidirsi.

Con un naturale «Ce la farete tutti», Albachiara all’orizzonte, il Blasco si accomiata dal pubblico, senza, come suo solito, lasciare spazio per saluti retorici. Ma con la promessa implicita che, in un modo o nell’altro, ci rincontreremo tutti.

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La band

La band è composta da Vince Pastano alla direzione musicale ed alle chitarre, Matt Laug alla batteria, Frank Nemola a elettronica, tastiere, tromba e cori, Beatrice Antolini alle percussioni, tastiere, cori e sax, Alberto Rocchetti alle tastiere, Andrea “Torre” Torresani al basso e Stef Burns alle chitarre. Guest star Claudio “Gallo” Golinelli, bassista storico, in ripresa dai problemi di salute che l’hanno costretto a fermarsi lo scorso anno, che ha suonato per quasi tutta la seconda metà del concerto.

La critica

Vasco è in grandissima forma, e le sbavature e le imperfezioni della sua voce risultano più feconde e vellutate che mai.

Il live è maggiormente apprezzabile dai fan storici, che saranno deliziati con delle “chicche” spolverate e lucidate per l’occasione (forse anche troppo, in contrasto con la chiave punk, che dovrebbe invece essere sinonimo di essenzialità. Questa è l’unica critica che sento di muovere). Ma anche il pubblico dell’ultima ora godrà per la presenza degli immancabili “classiconi”.

Vasco e il pubblico

Prima Vasco, poi nasco.

Recita così la maglia di una ragazza che certo non vela la venuta al mondo ormai prossima di una nuova mascotte per i fan del Kom.

Da una parte, un rapporto viscerale lega Vasco al pubblico, dall’altra vi è un riconoscimento totale e totalizzante del pubblico, che si scopre dar vita a qualcosa di più grande della propria potenzialità numerica. Di solito sei tu, al buio, che canti per farti coraggio, impaurito ma compiaciuto nella tua solitudine, che come un grembo ti protegge da una pubblica gogna che spesso di pubblico non ha un bel niente. Stasera no. Rendersi conto di essere in decine di migliaia sintonizzati sulla stessa frequenza emotiva ti libera in corpo un’energia pazzesca, e il momento diventa istante irripetibile e quasi liturgico. Ma la lucida presa di coscienza arriva irrimediabilmente dopo, a concerto finito – e forse ti penti di non esserti accaparrato abbastanza di quel momento, per garantirti almeno una piccola scorta da spendere nei prossimi momenti bui –, ma sai che il pensiero analitico avrebbe rovinato la magia, spezzando quell’autentica condivisione diventata ormai merce rara. E va bene così. (Senza parole)

Ecco la scaletta:

  • Qui Si Fa La Storia
  • Mi Si Escludeva
  • Buoni O Cattivi
  • La Verità
  • Quante Volte
  • Cosa Succede In Città
  • Cosa Vuoi Da Me
  • Vivere O Niente
  • Fegato, Fegato Spappolato
  • Asilo “Republic”
  • La Fine Del Millennio
  • Interludio (Vocals di Beatrice Antolini/Echo Lake di Stef Burns)
  • Portatemi Dio
  • Gli Spari Sopra
  • C’è Chi Dice No
  • Se È Vero O No
  • Io No
  • Domenica Lunatica
  • Ti Taglio La Gola
  • Rewind
  • Vivere
  • La Nostra Relazione
  • Tango… (Della Gelosia)
  • Senza Parole
  • Sally
  • Siamo Solo Noi + presentazione band
  • Vita Spericolata
  • Canzone
  • Albachiara
Simone Gasparoni

Simone Gasparoni

Classe 1995, studio Filosofia all'Università di Pisa. Allievo ortodosso di Socrate, ho sempre pensato che le parole siano roba troppo seria per abusarne (lo so, lo so, detta così sembra una scusa degna del miglior cerchiobottismo, per dirla in gergo giornalistico). Romantico per vocazione, misantropo per induzione. Attualmente, in via di riconciliazione con il genere umano attraverso la musica, l'arte, la cultura. Per ora, sembrano buone vie. Oltre che all'Unipi, potete trovarmi in giro in qualche locale o teatro a strimpellare la tastiera. O, con più probabilità, a casa mia. P.S. Ecco, l'ho già fatta troppo lunga...

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