Il pregiudizio è una cosa strana. Sin da piccoli, familiari e conoscenti, ci hanno detto di non giudicare un giocattolo dalla confezione, o un libro dalla copertina, o una persona dall’aspetto fisico. Perché quello che conta non è l’apparenza, ma la sostanza: è lì che risiede il valore di ogni cosa.
Tuttavia, crescendo ci rendiamo gradualmente conto che è veramente difficile che la nostra mente sia esente da qualsiasi tipo di pregiudizio. Un film, una canzone, un ristorante, persino una persona: nel nostro giudizio è stratificato – magari anche inconsciamente – un elemento a priori, che prescinde dalla nostra esperienza ma che tuttavia la influenza.
Il problema, in parte, è la sovra-stimolazione sensoriale alla quale siamo esposti ogni giorno, all’interno di una società che produce informazioni in eccesso e valori, sia estetici che morali, dai quali veniamo guidati nei nostri giudizi. Un bombardamento di contenuti che si stratifica nella nostra mente e che la rende incapace di un’osservazione – e quindi di un giudizio – completamente neutrale.
Tuttavia quella della non-neutralità delle osservazioni è una questione che ha toccato, trasversalmente, sia la filosofia che la scienza. Il filosofo Karl Popper sosteneva che non esistessero osservazioni neutre, nemmeno nelle indagini scientifiche, perché il punto di vista teorico – idee, aspettative, formazione individuale, etc. – dello scienziato precede quelle stesse osservazioni.
“Venticinque anni or sono, cercai di far capire questo punto a un gruppo di studenti in fisica, a Vienna, incominciando la lezione con le seguenti istruzioni: ‘prendete carta e matita; osservate attentamente e registrate quel che avete osservato!’. Essi chiesero, naturalmente, che cosa volevo che osservassero. È chiaro che il precetto ‘osservate’ è assurdo. E non è neppure idiomatico, se l’oggetto del verbo transitivo non può considerarsi sottinteso. L’osservazione è sempre selettiva. Essa ha bisogno di un oggetto determinato, di uno scopo preciso, di un punto di vista, di un problema. E la descrizione che ne segue presuppone un linguaggio descrittivo, con termini che designano proprietà; presuppone la similarità e la classificazione, che a loro volta presuppongono interessi, punti di vista e problemi”
La stessa dinamica si presenta anche nei pregiudizi che sviluppiamo – inconsciamente o meno – verso qualcosa. Ora, in questo caso, non si tratta ancora di connotare negativamente il termine “pregiudizio”, ma di considerarlo nella sua dimensione semantica: un giudizio che non si basa su fatti – o comunque non esclusivamente – ma sulle idee che necessariamente si formano nella nostra mente in relazione alla percezione individuale di quei fatti.
Mettiamo, per esempio, che a me non piaccia la recitazione di Riccardo Scamarcio. Questo è un mio giudizio, opinabile certo, ma che si basa sui film che ho visto sino ad ora dell’attore italiano, quindi un giudizio che si basa, in un certo senso, su dei fatti.
Il caso vuole che debba andare a vedere un film dove Scamarcio ha uno dei ruoli principali. Ora, se il mio giudizio influenzasse la mia visione e la mia opinione sul film e, più nello specifico, sulla prova attoriale dell’eterno ribelle, allora diverrebbe ipso facto un pregiudizio.
Purtroppo è molto complicato, anche ragionando in questi termini, mantenere uno sguardo completamente neutrale sulla realtà. È troppo forte l’inclinazione umana a mescolare fatti e percezione-dei-fatti.
Tuttavia è possibile – e necessario – non solo che giudizi e pregiudizi interagiscano fra loro, ma anche che i primi aggiustino i secondi, in modo che si formino opinioni il più possibili convergenti a quello stato di cose di cui si intende parlare.
In un certo senso, il pregiudizio, svuotato completamente della sua valenza negativa, è naturale, umano. Diviene patologico quando, esattamente come l’ansia, oltrepassa un certo limite, al di là del quale non può più essere controllato.