Il male esiste, così come esiste il bene. Certo non hanno un’ontologia così determinata come quel tavolo di fronte a me, né sono attraversati dalla necessità che permea i nessi causa-effetto. Male e bene non si trovano dal fruttivendolo né si incontrano per strada, e tuttavia ogni giorno li percepiamo come se abbracciassero interamente la nostra esistenza.
Nel corso della storia il problema del male è stato a lungo dibattuto. Il nucleo della questione è acceso dal paradosso di conciliare l’esistenza del male con quella di una divinità infinitamente buona, onnipotente e onnisciente.
Negare l’esistenza della divinità – per comodità limitiamoci al monoteismo -, negare alcune delle sue qualità essenziali, oppure tutte, sono le vie più immediate per sfuggire al paradosso. Ma anche introdurre il libero arbitrio come terreno fertile dell’umanità, nel quale possono germogliare anche i semi del male, o invocare un disegno divino che sfugge alla comprensione umana, si rivelano soluzioni in grado di aggirare il problema.
Soffermiamoci un istante sul concetto di male, nel suo senso più autentico, soprassedendo ad una sua eventuale giustificabilità.
La filosofa e storica Hannah Arendt, in uno dei libri più belli e stimolanti che si possano leggere sul tema del male – nello specifico in relazione all’Olocausto – coglie quella che, a mio avviso, è la reale natura del male.
“Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso” – Hannah Arendt, La banalità del male
Il dilemma che ruota attorno all’intero saggio, sottolineato ripetutamente dalla Arendt, verte su come si possa discernere il male dal bene quando ci si trova immersi nel primo e lo si vede come la ‘normalità’. Se si vuole traslare il dilemma dal piano etico a quello ontologico – scomodando la filmografia fantascientifica – è un po’ lo stesso dubbio che attanaglia la trama del film Matrix, ovvero quello su come si possa distinguere la realtà dalla finzione vivendo la seconda come ‘normalità’.
Quella della filosofa tedesca non è nemmeno lontanamente una “giustificazione attenuante” del male – come talvolta le è stato criticato – quanto piuttosto una ricerca della sua radice più profonda, sfumata semmai nel dubbio se questa possa esistere. E quello che ci ha insegnato è di un valore inestimabile, perché la banalità del male sta nella possibilità di commettere azioni malvagie senza esserne completamente consapevoli. Il male è banale proprio perché chiunque privo di idee può impossessarsene o, teoricamente, sostituirsi a chi se ne impossessa.
Ancor più importante è tenere sempre a mente che il male non è un entità che si trova nel mondo, ma un’inclinazione umana – la più inumana – e, come tale, non può essere compresa nel suo senso più profondo. Tuttavia la si può e la si deve combattere nella quotidianità di tutti i giorni, nelle azioni più semplici, in quelle che si sceglie di compiere o di non compiere.
Inutile dunque ricercare le cause del male nella dimensione trascendente, perché la natura del male è umana. Di più, il male attraversa la natura umana, non come corpo estraneo, ma come suo riflesso.
Il male, ogni volta, riflette l’immagine dell’umanità.