ITALIA/ITALIE
Rocca San Felice dovete cercarlo sulla cartina. E’ un paesino di poco più di 800 anime in un’ Irpinia che già sa di Appennino: case in pietra ricostruite dopo il terremoto del 1980, una rocca imponente su un colle pelato, un tiglio monumentale sulla piazzetta del paese. Uno dei tanti “Rio Bo” dell’Italia, un luogo delle tante Italie. Subito fuori del paese la grande mefite che ricorda riti antichi e una geologia che ribolle (https://www.ecampania.it/video-campania/avellino/itinerari/alta-irpinia-mefite-rocca-san-felice ), un luogo suggestivo che meriterebbe di essere conosciuto di più e che ritroviamo anche nell’”Eneide” . Perché parlo di questo luogo ? Perché ci sono stato invitato per partecipare a una manifestazione culturale “Echi della Tradizione” organizzato dall’Associazione Grande Madre , la cui anima è una studiosa attivissima come Franca Molinaro ( https://lagrandemadre.wordpress.com/ ).
Quello che mi ha colpito è il fatto che una manifestazione simile si svolga in un luogo appartato, dove bisogna andare apposta, un paese che si trova in quella grande spina dorsale dell’Italia dimenticata che sono gli Appennini, questa fascia verde che corre lungo la penisola. Un’area che ha conosciuto negli ultimi sessanta anni un progressivo scivolamento, quella che Italo Calvino definiva “una storia in discesa” perché la popolazione rotolava a valle verso le città e le pianure, verso le opportunità di lavoro e le comodità dei centri urbani più grandi .
Gli Appennini non hanno le altezze e la “spiritualità “ aerea delle Alpi, sono luoghi “terragni”: se il totem delle Alpi è l’aquila, quello degli Appennini è il cinghiale che cerca bacche e bulbi. Queste montagne sono il luogo della neve non griffata, della neve dei cicli eterni delle stagioni. E’ la civiltà del castagno e delle terre magre, terre di pietre e di rovi, dove lo scheletro del terreno si vede in superficie.
Sono terre di emigrazione dove la globalizzazione era già nei piedi dei loro abitanti , spesso alla ricerca di altri appennini, come i boscaioli del “mio” Appennino toscano che potevano tagliare legna a casa loro, come nel Magreb o in Amazzonia. Oggi altre emigrazioni scendono a valle, spesso verso paesi esteri, e raccontano storie diverse , di giovani, spesso con alto livello di istruzione, che cercano occasioni migliori o semplicemente occasioni. Mentre certi mestieri tradizionali sono portati avanti da immigrati, che ripopolano certe aree marginali: in Toscana “Il Taglio del bosco” di Carlo Cassola viene riscritto, su basi nuove, da boscaioli macedoni e bosniaci.
Un mondo quello appenninico spesso snobbato dalla politica o considerato solo come luogo di passaggio per tav , autostrade veloci, quasi un ostacolo da superare senza vedere, uno sviluppo senza sviluppo. Non si tratta di guardare ovviamente ad un mitico passato che quasi sempre era miseria nera, la montagna ha bisogno di servizi e infrastrutture valide per abitarci, ma la montagna suggerisce ad un mondo impazzito un rapporto uomo – natura che non veda la seconda semplicemente come azienda da cui trarre profitti, ma una natura che nutre e che può essere un laboratorio di sviluppo sostenibile.
Perché dico questo riferito ad una manifestazione culturale in un paesino irpino? Perché indirettamente vi ho ritrovato una tradizione che guarda al futuro, che viaggia sul web. Si avvertivano energie positive che richiamavano un’Italia diversa, non quella urlata che compare in tv o sui social. Esperienze di vita che si rincorrono, il medico che opera in Africa e nel Kurdistan e che ci parla del valore del pane, il ricercatore cinese che scrive una poesia sulla bellezza del territorio, l’ex pastore che ci descrive lo stazzo, l’erborista che conosce le erbe appenniniche e ha insegnato alla Sorbona, le maestre della scuola primaria che fanno leggere i propri bambini, il vecchio poeta che ricorda le tradizioni, la ragazza dell’agriturismo che è tornata per far rivivere la propria terra e così via. Un’Italia bella, di quelle che di fronte alla caciara della chiacchiera politica dei guitti che ci governano, degli “odiatori” di professione, pensavi di avere perso per sempre. E invece eccola qui che si mostra in questo paese dell’Appennino e ti fa capire che forse c’è ancora speranza.