Sembra così facile parlare della verità. Così facile che nemmeno si riesce ad accorgersene quando la leghiamo, a doppio filo, ai nostri cinque sensi, oppure al nostro intelletto. E perché no, anche alle nostre emozioni.
È vera la pioggia che mi scivola sul viso, è vero il sapore del pane appena sfornato, così come lo è il suo profumo. È vero il David di Michelangelo che vedo imponente di fronte a me, non meno del genio che l’ha scolpito. Sono veri i sentimenti che si provano per un fratello, per un amico o per un amante.
Persino i sogni sono veri. Certo, non sono reali in senso stretto, infatti ci svegliamo e svaniscono. Ma perché dovremmo privarli di qualsiasi status ontologico? Alla fine non sono nient’altro che un prodotto che il nostro cervello costruisce accuratamente. E il nostro cervello è vero.
Però, se ci soffermiamo a pensare a cosa sia realmente la verità, tutto si complica.
“Carattere di ciò che è vero, conformità o coerenza a principi dati o a una realtà obiettiva”.
Questa è la definizione principale che dà l’Enciclopedia Treccani – ovviamente a questa ne seguono altre, ma ritengo che per i nostri scopi sia sufficiente.
Alcuni dei più illustri pensatori degli ultimi due millenni e mezzo si sono affacciati sul tema della verità. Spesso la tendenza è stata quella di relegare la verità in un posto inaccessibile – o accessibile solo in determinate condizioni – all’uomo. Ad esempio Platone relegò la verità nel mondo delle idee (o Iperuranio), accessibile ai puri d’intelletto, un seme che germoglierà nel terreno fertile della cristianità, trasformandosi nella promessa della vera vita, quella ultraterrena – beninteso, per i puri di corpo e spirito.
In questo modo si andò creandosi l’esigenza di separare il mondo apparente – il nostro – dal mondo vero, quello a cui dovremmo aspirare e verso cui dovremmo tendere. Seppur sotto diverse prospettive e con differenti finalità, anche il Velo di Maya schopenhaueriano e il Noumeno kantiano potrebbero essere visti attraverso gli occhiali di questa dicotomia.
Secoli dopo, colui che nacque postumo, distruggerà il mito del mondo vero, ma, seppur mi dispiaccia, non è questa la sede per affrontare l’argomento nel dettaglio, quindi mi affiderò ad una scarna – ma colma di significato – citazione.
“Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!” – F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (p. 47)
Nonostante il mio pensiero si sposi con quello di Nietzsche, mi trovo costretto a sottolineare un aspetto determinante per affrontare la questione.
La verità ha a che fare con il linguaggio e con le cose-nel-mondo. Precisamente, fornisce il punto di contatto fra linguaggio e realtà e permette di stabilire in che modo aderiscano l’uno all’altra.
Ora, oltre al problema filosofico dovuto alla necessità – ma impossibilità – di uscire dalla realtà e dal linguaggio, porsi al di sopra di essi, per stabilire una loro eventuale corrispondenza esatta, ce ne è un altro più “terreno”. Si tratta di un problema che ha strettamente a che fare con il linguaggio.
La frase scritta in grassetto è falsa.
Questo è un esempio classico di paradosso semantico. La frase soprariportata non può essere né vera né falsa.
Se la frase fosse vera ne conseguirebbe, in virtù di ciò che c’è scritto, la sua falsità. Ma se fosse falsa, ne conseguirebbe, sempre in virtù di ciò che c’è scritto, la sua verità. E così via, in un circolo vizioso senza fine.
Uno dei contributi fondamentali al problema dei paradossi semantici – e più in generale al tema della verità – è stato quello fornito da Alfred Tarski. I sintomi del problema sono tre: l’autoreferenzialità della frase, la negazione del predicato di verità e la chiusura semantica del nostro linguaggio.
Per i primi due c’è poco da fare, perché il nostro linguaggio offre possibilità che permettono di mettere in crisi la sua attendibilità. Tarski decide così di lavorare sul terzo sintomo.
Ma che cos’è la chiusura semantica del linguaggio?
In poche parole è la conseguenza del fatto che il predicato – o se preferite, il concetto – di verità si trova all’interno del nostro linguaggio. Per dire che una mela è rossa faccio riferimento al predicato di verità (“essere vero”), che si trova dunque sullo stesso livello del predicato “essere rosso”. Ora, se questo va bene in generale, diventa un problema quando ci troviamo davanti certi tipi di frase, come abbiamo visto.
Immaginate il nostro linguaggio come un grande vaso, fatto di tutte le parole possibili e di tutte le espressioni che si possono formare. Ecco, il problema è che la verità è un frammento di quel vaso, incastonato al pari di ogni altra parola.
A Tarski va l’enorme merito di aver introdotto il metalinguaggio, che potremmo dire essere un linguaggio di secondo livello. Abbiamo dunque un linguaggio oggetto – il nostro – e un metalinguaggio, che parla del linguaggio oggetto. Il predicato di verità viene posto allora nel metalinguaggio.
“La frase scritta in grassetto è falsa” è vera se e soltanto se la frase scritta in grassetto è falsa.
“La frase scritta in grassetto è falsa” è falsa se e soltanto se la frase scritta in grassetto è vera.
Il metalinguaggio, parlando del linguaggio oggetto e trovandosi al di sopra di esso, è nella posizione di poter stabilire la veridicità delle affermazioni del linguaggio oggetto – quello virgolettato, per intenderci.
Posso comprendere che non sia una questione così immediata da digerire, però vi assicuro che l’eleganza concettuale dell’argomento tarskiano, che qui ho dovuto ridurre ai minimi termini, è veramente una rarità. Sostanzialmente, è possibile parlare comunque dalla verità di ciò che costruisco con il linguaggio oggetto, ma è possibile farlo solamente da un livello superiore, quello del metalinguaggio, in modo da sfuggire così ai paradossi semantici.
Allora, probabilmente la tendenza a relegare la verità fuori dal nostro sistema di coordinate non è stata completamente erronea, anche se l’unità di misura da prendere in considerazione non è il mondo, ma il linguaggio. In tal senso, la verità è qualcosa che si può afferrare ma che sfugge al nostro ferreo bisogno di controllo o alla nostra totale comprensione.
Probabilmente trovare la verità è un obiettivo impossibile, ma cercarla non è un’azione insensata.