IL NOSTRO CILE.
Mentre sto scrivendo in Cile c’è il coprifuoco e l’esercito è padrone delle strade. Un’immagine lugubre che rimanda a troppi ricordi del passato e che non è altro che il prodotto finale di un governo conservatore che non ha saputo risolvere il malcontento diffuso della popolazione cilena: il pretesto è stato l’aumento delle tariffe dei mezzi pubblici, ma il malessere è più profondo. Presidente della repubblica è un conservatore liberista Sebastiano Pinera, imprenditore. Quello che ha voluto togliere dai libri di scuola la dicitura “dittatura militare” per indicare il sanguinario regime fascista del generale Augusto Pinochet. Un rappresentante tipico di quella borghesia reazionaria e tecnocratica, imbevuta degli ideali liberisti della Scuola di Chicago, pronta ad appoggiare il golpe militare, la sua repressione e il regime di Pinochet, da cui ebbe profitti e privilegi. Le stesse facce fintamente decorose, con l’anima nera, che appoggiarono il dittatore, così come i volenterosi industriali e banchieri tedeschi lo erano stati per Hitler. Una classe dirigente che aveva rinunciato al liberalismo politico pur di conservare il proprio status.
Il Cile evoca troppi ricordi, soprattutto in Italia. Chi non ricorda gli effetti del golpe cileno sulla politica italiana (con la teoria di Enrico Berlinguer del cosiddetto compromesso storico antifascista fra le grandi forze popolari) ? Ma soprattutto gli effetti su una generazione che vide nel Cile una nuova frontiera della lotta antifascista.
Quanta fortuna ebbero gli Inti Illimani che si esibivano sulle piazze d’Italia grandi e piccole con il loro “el pueblo unido jamas serà vencido”, con i cori di risposta anche per chi non sapeva lo spagnolo e spesso storpiava le parole, ma lo spirito no, era quello. Certo Lucio Dalla, un po’ a ragione, diceva “la musica andina che noia mortale”, ma quale coinvolgimento quel “pueblo unido” che evocava la Resistenza .
E le iniziative ovunque, dentro e fuori le feste dell’Unità, e le testimonianze dirette degli esuli cileni che ricordavano la bellezza del Cile e il coraggio di chi ancora resisteva , a rischio della morte o della deportazione in qualche isoletta australe. Erano lontani , ma sembravano fratelli i cileni.
Ricordo ancora certi incontri, io studente liceale (quanto era più facile incrociare certi personaggi) , con il filosofo ed ex sindaco di Valparaiso Sergio Vuskovic Rojo che mi parlava della sua città di mare e mi regalò un suo libro su cui mi aveva scritto una dedica dicendo che ero “un anello della catena umana che ama la libertà e che un giorno vincerà” o Josè Ramirez, poeta, con poesie che si definivano impegnate, che aveva conosciuto bene Pablo Neruda. Il mondo sembrava uno solo e il Cile era lì, a casa nostra, a pochi chilometri di distanza.
D’altra parte , si raccontava, che Salvador Allende conoscesse le canzoni di Pietro (Pedro per loro) Gori e le cantasse, accompagnandosi con la chitarra : il Tirreno e il Pacifico si univano sulle note di “Addio a Lugano”.
Ecco perché non posiamo non dirci cileni e soprattutto quando vediamo i militari per strada a Santiago non ci colpisca un senso di disagio e di repulsione.