Il concetto di equilibrio permea la struttura del reale e, specularmente, ci viene mostrato nel momento stesso in cui il nostro sguardo si posa sul mondo. L’equilibrio di un ecosistema, o di una reazione chimica, o di una funzione matematica, l’equilibrio del tempo. Ogni aspetto del reale si lascia cullare da questa neutralità positiva – o tende verso quella direzione.
L’uomo, un prodotto nella Natura – in senso mistico -, abita la realtà e tende parimenti a quella condizione privilegiata, dalla quale ammirare la forza caotica degli opposti. Stemperare le passioni, evitare di cadere nel dogma della razionalità assoluta, fare scelte che si colorino di un grigio sfumato ma autentico, in grado di assorbire la potenza oppressiva del bianco e del nero.
Nell’Antica Grecia del IV a.C., già Aristotele aveva spinto l’umanità verso quella condizione desiderabile, introducendo il concetto di giusto mezzo. La medietà è l’essenza della virtù etica, perché concilia due forze antitetiche che, prese singolarmente, si costituiscono come vizi. La virtù del coraggio, ad esempio, è il punto di equilibrio fra la codardia e la temerarietà. Infatti queste caratteristiche si configurano o per il difetto o per l’eccesso della qualità ideale, il coraggio appunto.
Ma è necessario sottolineare anche un altro aspetto: la relatività di questo principio. Non esiste un equilibrio assoluto fra due opposti a prescindere dalla persona in cui questo si concretizza. Per spiegare più facilmente la questione, è preferibile passare dal piano morale, in cui bene e male sono i più affascinanti opposti, ad un piano più materiale.
Poniamo che ci siano un atleta di professione e un impiegato. In assoluto, quando si parla di alimentazione corretta (in questo caso sinonimo di equilibrata), i carboidrati da assumere giornalmente non dovrebbero superare una certa soglia. Tuttavia l’atleta sfrutta il proprio corpo in maniera differente da quanto fa l’impiegato ed ha quindi maggior bisogno di energia e, conseguentemente, di carboidrati. In questo senso, il giusto mezzo sarà diverso, relativo alle particolari necessità di entrambi.
L’equilibrio non è dunque un concetto statico, tant’è che la sua dinamicità è strutturata da esigenze esterne. Eppure può darsi il caso anche che sia la volontà di ricercare l’equilibrio a determinare quelle circostanze, paradossalmente fuori dalla sua portata. Si tratterebbe cioè di far fronte alla caoticità del mondo attraverso la ricerca di ciò che appaga il nostro bisogno di equilibrio.
Tornando un secolo ancora indietro, sempre nell’Antica Grecia, vediamo affacciarsi su questa discussione un altro filosofo, il sofista Protagora. Per certi versi la sua visione delle cose è agli antipodi rispetto a quella di Aristotele, ma la sua frase più celebre coglie un punto fondamentale dell’essenza del giusto mezzo.
“L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle cose che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono”.
L’uomo, nella sua singolarità, è l’unità di tutto quello che può e non può fare, non tanto nell’accezione di possibilità in termini di potere, quanto in quella di forza trainante del proprio modo di volersi dare al mondo.
L’equilibrio, in assoluto, è certamente un traguardo desiderabile, ma il modo di raggiungerlo ricade sotto il dominio della relatività. Un disegno che si riempie di mille colori, perché questo è il libero arbitrio: la possibilità di colorare il mondo con pennellate di volontà individuali.