Futurismo a Palazzo Blu. Pensieri in libertà
Come iniziare il nuovo anno in maniera proficua? E magari raccontarlo agli amici che leggono questo blog? Sì, perché questo spazio è anche per me uno sprone a non cedere all’inerzia delle contingenze del quotidiano, un invito a spezzare la routine con qualcosa di culturalmente stimolante. Quest’anno sembra essere un pochino più importante degli altri: per chi non se ne fosse accorto, abbiamo cambiato decennio. Badate bene, solo nel nostro calendario (alle volte è utile relativizzare per non lasciarsi travolgere dalla retorica). Si sono quindi sprecate più parole del solito su un futuro la cui emancipazione dal passato sembra sempre più definitiva.
E allora ho pensato che questa proiezione estrema in un avvenire pieno di promesse, accogliente e riconoscente rifugio da un passato patrigno, non è nuova nella nostra storia. È improprio e antistorico stabilire delle continuità tra la nostra epoca e quella che ha visto la nascita del Futurismo (che poi erano praticamente gli stessi anni Venti, ma del secolo scorso)? Secondo me no, e forse questo ci dovrebbe far riflettere. Comunque, per capirne qualcosa di più, sono andato a visitare la mostra in corso a Pisa, a Palazzo Blu, che – guarda caso – ha come oggetto proprio il Futurismo.
La mostra
La mostra, aperta fino al 9 febbraio (e che consiglio di visitare, almeno per chi studia all’Unipi, il giovedì, per l’ingresso a 5 euro) si compone di più di 100 opere dei maestri della prima avanguardia d’Europa. Balla, Boccioni, Carrà, Russolo, Severini, Depero e Crali, sono alcuni tra gli artefici dei dipinti, disegni e oggetti d’arte che si possono apprezzare. Il percorso espositivo è scandito dai vari manifesti che hanno segnato i trent’anni d’arte futurista (il Manifesto del Futurismo di Marinetti è del febbraio 1909). Così le opere sono da intendersi come espressione dei punti teorici salienti: il rifiuto dell’accademismo, la distruzione del culto del passato, la vocazione al dinamismo e alla simultaneità. E poi: la magnificazione del progresso tecnologico e industriale, il mito della Macchina, che diventa modello estetico di riferimento.
Si capisce come il Futurismo fosse un vero universo di senso, che si prefiggeva di invadere ogni aspetto della vita umana, perché la vita è la vera opera d’arte. La mostra intrattiene un dialogo prolifico con quella dedicata a Natalia Goncharova di Palazzo Strozzi (Firenze), che avete tempo di visitare fino al 12 gennaio (e di cui vi ho già parlato qui). In queste due mostre, emergono pienamente le potenzialità espressive delle nuove generazioni: all’inizio del ‘900 (come oggi, d’altronde), ai giovani non era riconosciuto alcun potere. I protagonisti delle avanguardie seppero invece anticipare sensibilità che trovarono diritto di cittadinanza solo molto più tardi, ai tempi della Beat Generation e delle proteste giovanili del Sessantotto.
Parallelismi
Mi sembra che il nostro tempo sia caratterizzato da un rapporto inquieto e schizofrenico col passato. Da una parte, c’è una ripresa di temi e simboli tradizionali, tipica di un certo paradigma securitario-sovranista. Qui si fa riferimento ad una tradizione che tradizione non è più, perché – benché lo si voglia ignorare – essa ha conosciuto un periodo di discontinuità che l’ha inevitabilmente ibridata. Dall’altra, c’è una tendenza globalista-neoliberale, totalmente proiettata nel futuro. Costellazioni di riferimento sono l’assenza del limite, il godimento ad ogni costo, l’ossessione per il tempo reale. Una visione in cui il minuto appena trascorso e l’oggetto appena consumato sono già obsoleti.
Nei futuristi vedo una lettura differente. Si parte sì dal riconoscimento dell’inadeguatezza delle forme del passato, un passato che viene distrutto. Ma le macerie non si abbandonano, né diventano pietre di fondazione di qualcosa che non può più essere. Si riutilizzano invece in una chiave nuova. L’irrefrenabile anelito di rinnovamento, la spinta incontenibile verso il nuovo che dà speranza sono il momento successivo ad una conoscenza profonda del passato, implicitamente imprescindibile. Non c’è solo una superficiale voglia di cambiamento, uno scrollarsi di dosso il passato. Ma un’urgenza comunicativa vera, a cui un certo linguaggio non è più in grado di rendere giustizia. È un saltare in braccio alla complessità, non un tapparsi le orecchie e urlare più forte di un tempo sempre più partecipato e prospetticamente vario.
È questo, secondo me, che possiamo imparare dai futuristi, provando ad andare al di là delle loro pulsioni belliciste e scioviniste che, chiaramente, non possiamo negare.
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