Nel libro della Genesi si narra la storia della grandezza dell’ingegno dell’uomo, strumento rivelatore, tuttavia, anche della sua condizione limitata. Nella Bibbia, la Torre di Babele si trasforma da monito per l’uomo, al quale è vietato bypassare il proprio destino, a simbolo della sua natura definita e immodificabile.
Il re di Babele – o Babilonia – Nimrod decise di costruire una torre che dalla terra arrivasse al cielo, sia per raggiungere Dio nella sua grandezza, sia per elevarsi dalla propria condizione terrena di imperfezione. Adirato da un simile obiettivo, Dio fulminò Nimrod e, per far sì che la costruzione della torre si interrompesse, diversificò il linguaggio dei babilonesi, che fin lì era stato unico, creando così tutte le lingue di oggi. Gli uomini non avrebbero più potuto organizzarsi per terminare l’ambizioso progetto. Dio portò per la prima volta l’incomunicabilità nel mondo.
Attraverso la Torre di Babele, quello della comunicazione – e dell’incomunicabilità – è stato forse l’elemento più efficace per rendere l’idea del dislivello ontologico e gnoseologico che intercorre fra noi e l’universo. O per lo meno lo era nelle civiltà antiche, desiderose di una risposta confortevole di fronte alla vastità dei fenomeni che non riuscivano a spiegarsi.
Nel corso della storia della filosofia, si è cercato di spiegare a lungo questo limite che non ci è dato oltrepassare. Così Platone introdusse il mondo delle idee – l’Iperuranio –, un luogo destinato a essere compreso solamente dall’intelletto dei filosofi, che dunque avevano successivamente il compito di risvegliare l’umanità assopita nell’oscura caverna che è il nostro mondo.
Attraverso la cristianità, il dualismo mondo vero-mondo apparente si è trasformato nel premio ultraterreno di una vita terrena vissuta secondo i dettami della dottrina religiosa cristiana. Poi Kant, con la distinzione fenomeno-noumeno, ha strutturato quell’idea su un piano ancor differente, slegandola – anche se non del tutto – dal piano morale. Il nostro è il mondo dei fenomeni ed è tutto quanto ci è dato conoscere: il noumeno sfugge dunque alla conoscibilità umana.
E ancora, Schopenhauer e il velo di Maya, la coltre illusoria che separa l’essere umano dalla realtà nel senso più completo. Per non parlare della siepe che «dell’ultimo orizzonte il guardo esclude», di leopardiana memoria: il simbolo della condizione umana forse più significativo nella storia della cultura italiana.
Il limite dell’umanità, tuttavia, non si mostra solo attraverso le parole, ma prende forma anche sulla tela di chi ha la sensibilità emotiva e artistica di renderlo in qualche modo reale. È il caso del pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich, che nel 1818 diede alla luce quello che sarebbe divenuto il manifesto del Romanticismo tedesco: il Viandante sul mare di nebbia.
La finitezza dell’esistenza umana nella contemplazione dell’infinito. Probabilmente la sua condizione imperfetta non è stata solo la croce dell’uomo, ma anche la sua fortuna. Gli ha dato modo, infatti, di dare vita ad alcune delle opere letterarie e artistiche più straordinarie di sempre, che altrimenti non si sarebbero tradotte nel dono dei sensi quali sono.
Fortunatamente la Torre di Babele non è mai stata portata a compimento.