Sono poche le cose che catturano l’attenzione dell’uomo come la follia, intesa come stato psicopatologico. È necessario subito precisare che l’attrazione verso tutto ciò che devia dalle normali regole di condotta è circoscritta alla dimensione letteraria e cinematografica. Sostanzialmente, la mente tende a rincorrere la pazzia solo quando questa è confinata dentro uno schermo, oppure all’interno di un libro.
Immagino che un personaggio folle come Joker – giusto per prendere il più noto – susciterebbe emozioni diverse a seconda del suo grado ontologico. Osservarlo dietro a uno schermo, sapendo che non esiste nella realtà, non sarebbe come trovarselo di fronte. Nel secondo caso, l’attrazione sarebbe subito sostituita dal terrore, anche qualora ci sussurrasse frasi che sono rimaste nell’immaginario comune; e che magari, ancora, vanno a riempire le didascalie delle foto sui social network.
Joker: – «La follia, come sai, è come la gravità: basta solo una piccolo spinta».
Il Cavaliere Oscuro (2008)
Alla voce “follia” l’Enciclopedia Treccani recita: “Genericamente, stato di alienazione, di grave malattia mentale”, che si traduce anche in mancanza di senno. Insomma, la follia è qualcosa che sicuramente può essere interessante oggetto di studio da parte delle discipline psicologiche. Tuttavia, più difficile è spiegare come la sua ostentazione attraverso prodotti narrativi di varia forma artistica generi fascinazione nel lettore o nello spettatore.
Nel saggio Elogio della follia (1511), Erasmo da Rotterdam antropomorfizza la follia, donandole la capacità di linguaggio, così che possa auto-elogiarsi. Lo scritto è palesemente satirico, nonché un gioco dialettico, ma alcuni passaggi permettono di capire l’attrazione verso questo stato psicopatologico.
Innanzitutto, tra gli amici della follia ci sono alcuni di quelli che oggi potrebbero essere considerati tratti del disturbo narcisistico di personalità: vanità e adulazione, giusto per citarne un paio. Ecco allora che la follia sembrerebbe legata a doppio filo con il narcisismo patologico.
Questo legame è stato evidenziato in modo eccellente in Mindhunter (2017), serie tv statunitense distribuita da Netflix. Nello scandagliare la mente di psicopatici e serial killer, i protagonisti si trovano spesso a fare i conti con i forti tratti narcisistici che ne hanno definito le folli gesta e che, fondamentalmente, ne definiscono la personalità, quantomeno in parte.
L’altro aspetto è che la follia, nel suo autoelogio, presenta la propria natura quasi come divina, facendosi beffa dei mortali. La mortalità appartiene al mondo degli umani, a tutti coloro che sono appesantiti dalle catene dell’esistenza, costretti a vivere secondo schemi preimpostati. Al contrario, la follia sembra squarciare la prevedibilità della vita, aggiungendo il caos divino all’ordine umano.
Ecco allora che l’uomo si vede costretto a subirne il fascino anarchico, la potenza in grado di frantumare la noia quotidiana. Egli nutre segretamente il desiderio di alleggerirsi di quelle catene e spiccare il volo insieme alla sua Venere, sorvolando la normalità.
Ma volare troppo vicino alla follia, ripetutamente e senza protezioni, comporta quasi inevitabilmente che si brucino le ali della ragione. È dunque preferibile osservarla da lontano, magari con uno sguardo critico, lasciando che la sua natura naufraghi nella dimensione fantastica.