Quanto sono importanti le storie nelle nostre vite?
Quanto sono importanti le storie, le narrazioni, gli aneddoti, nella nostra vita di tutti i giorni? Pensiamoci: banali resoconti giornalieri, o semplici barzellette assumono i connotati di veri e propri racconti, ciascuno codificato attraverso un proprio sistema interno di connessioni e regole. C’è chi dice che il nostro bisogno di raccontare, e di esplicitare la violenza nelle opere che creiamo, sia una necessità strettamente connessa all’uomo. Questi arriverebbe a sublimare il suo bisogno primordiale di lottare nelle narrazioni che esperisce. La pratica del raccontare storie (storytelling) avrebbe quindi radici lontanissime: una volta che il bisogno principale dell’uomo non è più quello di cacciare, ecco la necessità di colmare il vuoto che la caccia lascia. D’accordo o no con questa visione “primordiale”, non possiamo che confermarne l’essenza: la storie sono parte di noi da sempre.
Ho scelto queste tre opere perché ognuna, a modo suo, riesce benissimo nel comunicare l’esigenza, o meglio, l’urgenza della creazione artistica e/o della fruizione estetica.
Le considerazioni e le riflessioni che vi proporrò saranno, come sempre, SPOILER FREE. Ogni tanto mi collegherò a qualche passaggio, ma non vi rovinerò nulla. Giuro. Andrò a crescere: le varie opere (o le vicende raccontate all’interno di esse) hanno differenti casse di risonanza. Partiremo dall’esperienza più “personale e intima” fino a salire ad un livello nazionale/culturale.
Panino al prosciutto
Scoprii la biblioteca pubblica La Cienega. Feci il tesserino.
Il romanzo è scritto da Charles Bukowski. Chi non avesse mai letto nulla dell’autore, probabilmente lo conoscerà grazie alle frasi inserite sotto le foto di avvenenti ragazzi e ragazze. Io non me le sono mai potute permettere, purtroppo.
Esce nel 1982 e chiude il ciclo romanzesco dedicato ad Henry Chinaski, alter ego letterario dell’autore. I primi 3 romanzi (Post Office, Factotum e Donne) raccontano rispettivamente gli anni centrali, gli anni giovanili, e gli anni della maturità dell’autore. Panino al prosciutto si situa prima di Factotum e racconta la storia, dall’infanzia ai, più o meno, vent’anni di Henri. Lo stile è asciuttissimo, e la narrazione è semplice. L’unica voce che ascoltiamo è quella del nostro protagonista e ogni personaggio, nel procedere della narrazione, è a lui subordinato.
Giravo per la biblioteca in cerca di libri. Li tiravo giù dagli scaffali, a
uno a uno. Ma non erano granché. Erano molto noiosi. Pagine e pagine di
parole che non dicevano niente. 0 se dicevano qualche cosa ci mettevano
troppo a dirla e quando l’avevano detta uno era così stanco che non aveva
più nessuna importanza. Sfogliai un libro dopo l’altro. Di certo, tra tutti, ne
avrei trovato uno che mi andava bene.
La biblioteca è il primo luogo nel quale il nostro possa avvertire una sorta di rifugio. La descrizione di questo spazio inesplorato assume le caratteristiche di un luogo incantato, ed Henri, alla stregua di un eroe biblico, cammina e cerca di far suo questo territorio. La bibliotecaria, unica persona con la quale ha modo di entrare in contatto, è gentile con lui, e questo lo sconquassa, non essendo abituato alla dolcezza degli altri. Solo per il fatto di essere impiegata lì, la signora viene vista come una detentrice del sapere assoluto, e si trasforma in un moderno Caronte, pronta a traghettare il ragazzo in un altro mondo.
La mia bibliotecaria cominciò a guardarmi in modo strano,
quando arrivavo col mio tesserino. « Come va oggi? », mi chiedeva.
Una frase gentile. Mi faceva sentir meglio. Come se fossi andato a letto
con lei.
La biblioteca aiuta Henri nella crescita, diventa un lettore provetto e può anche azzardarsi a sparare critiche severe nei confronti degli autori. Legge a caso, ma legge tantissimo, e predilige gli autori che in qualche modo gli sembrano “autentici” e non artefatti. Inizia dalla grande narrativa americana, e finisce ai russi, tra i quali apprezza in modo particolare Turgenev.
Lessi tutti i libri di D.H. Lawrence. E mi portarono ad altri libri. A quelli di H.D., la poetessa. A quelli di Huxley, l’amico di Lawrence. Li leggevo uno dopo l’altro, difilato. Uno tirava l’altro. Attaccai Dos Passos. Non era eccezionale, ma buono, abbastanza buono. Mi ci volle più di un giorno per leggere la sua trilogia sugli USA. Dreiser non era il mio genere. Sherwood Anderson sì. E poi arrivò Hemingway. Che roba! Lui sì che le sapeva metter giù, le frasi. Era una delizia. Le sue parole non erano noiose, le sue parole ti facevano ronzare il cervello. Bastava leggerle, abbandonarsi alla magia, e si poteva vivere senza dolore, pieni di speranza, non importava come.
Turgenev era un tipo molto serio, ma riusciva a farmi ridere perché le verità sono molto divertenti, quando le si incontra per la prima volta. Quando la verità di qualcuno è la tua stessa verità, e lui sembra dirla solo per te, è una cosa fantastica. Leggevo i miei libri di notte, sotto la coperta, con la lampada surriscaldata. Leggevo tutte quelle belle frasi e intanto soffocavo. Pura magia.
La lettura, la biblioteca, l’aver scoperto “un’altra realtà” all’interno di un mondo così arido e secco, lo scuote e lo cambia radicalmente. La lettura porta una serenità, pacata, tiepida, ma pur sempre una tranquillità non ottenibile altrove, che cambia definitivamente l’animo del protagonista ed il suo modo di relazionarsi sia col prossimo, che col mondo stesso. Sarebbe stato il Bukowski che conosciamo se questi non avesse mai scoperto questo mondo bellissimo? Non credo, ma è solo la mia umile opinione. All’interno dell’economia del romanzo, quest’esperienza occupa uno spazio minimo, ma per me è imprescindibile per comprendere come questi mondi fantastici possano rappresentare la salvezza di un ragazzino solo ed incompreso. Come prima opera, ho scelto una storia che parlasse di come la fruizione artistica cambi il nostro io a prescindere dalla realtà circostante. Anzi, che ci aiuti proprio a definirla e, seppur lievemente, a comprenderla.
La prossima opera è più complessa, e tra le tre che porto è la più stratificata, ma cercherò di essere più chiaro possibile. Abbiamo visto come la fruizione estetica possa apportare dei cambiamenti significativi alla nostra identità in Bukowski, ora vedremo come Tarantino affronta l’esigenza della creazione artistica, e di come questa, in tutta la sua cinematografia, ma specialmente nel suo ultimo film, possa arrivare a fare i conti la storia.
C’era una volta a… Hollywood
C’è da fare una premessa: adoro Tarantino. Ok, detto questo, cercherò di essere più “oggettivo” possibile. Seconda premessa: il film è bellissimo.
Ci troviamo nel 1969, a Los Angeles, e seguiamo le vicende di Rick, attore in decadenza, e Cliff, sua controfigura. Il mondo sta cambiando, il cinema sta cambiando, e i due sembrano non reggere il colpo. Cliff il colpo lo attutisce meglio perché è uno stuntman: è abituato a cadere.
È una fiaba. Abbiamo i nostri due protagonisti che, da essere le figure chiave di un certo star system hollywoodiano, si trovano improvvisamente allontanati da questo sistema. Le nuove star sono i loro nuovi vicini di casa: Sharon Tate e Roman Polanski. E già qui, il primo colpo: inserire due personaggi di questo calibro accanto a due personaggi fittizi? Sì. È Tarantino e può permettersi di tutto. Per chi fosse all’oscuro della terribile vicenda che colpì Sharon tate il 9/09/69, basti ricordare che fu uccisa dalla Manson family, comune hippy criminale facente capo a Charles Manson.
E mi fermo qui con la trama. Seguiamo queste tre vite, diversissime tra loro, girovagare per la Hollywood di fine anni ’60 ed entrare in contatto con tutti i cambiamenti che l’avvento dei ’70 porterà. Dopo questa lunga ed estenuante premessa, cosa c’entrano la fruizione artistica e/o la creazione estetica?
Questo film si inserisce nell’ucronia tarantiniana. Come? Lo vedremo alla fine. La scena chiave, secondo me, è Sharon Tate, interpretata magistralmente da Margot Robbie, che va al cinema. La sequenza non dura molto, ma è centrata su Margot Robbie, che, da spettatrice, si guarda recitare (guarda il film originale della compianta attrice “reale”, Sharon Tate) e sorride. È miope, ha bisogno di mettersi gli occhiali, per studiare la sua performance come donna, come professionista, come artista. Il cinema diventa un utero: lei nasce e rinasce grazie all’approvazione del pubblico in sala. Il cinema, però, diventa anche una cattedrale nel quale i miti arrivano a toccare l’eternità.
Il regista cristallizza e fissa nel tempo l’amore di una ragazza verso il cinema, verso la vita, e verso il sistema di cui faceva parte; lo stesso sistema che, forse, gli ha conferito lo status quo per il quale è stata uccisa. La ricostruzione di Sharon è delicata, leggera e dimostra tutto l’amore che Tarantino prova nei confronti di un’epoca che non tornerà mai più. Ma questo è il SUO film, e può fare quello che vuole, persino arrivare a farla pagare a quei bastardi invasati.
E situandosi in un’altra “realtà”, potete ben capire cosa Tarantino decida di fare. Vuole affrontare quell’esperienza atroce che segnò Hollywood per sempre, e che determinò la fine dell’innocenza di un intero universo. Vuole dar voce alle vittime che possono finalmente regolare i conti coi propri carnefici. Grazie al cinema possiamo affrancarci dalla schiavitù (Django), una donna può emanciparsi a colpi di katana (Kill Bill), ed il nazismo può morire incendiato in un cinema di Parigi (Bastardi senza gloria).
IMPERDIBILE.
Ma se l’opera non riguardasse più un singolo individuo, o un micro-cosmo come quello hollywoodiano, ma fosse fondante e fondamentale per una cultura intera?
La saga di Grimr
Ci spostiamo completamente e dallo spirito americano che accomunava, più o meno, le due opere precedenti, arriviamo nella fredda Islanda del 1700.
L’Islanda è sotto il gioco danese dal 1380, ed è dalla Danimarca totalmente dipendente. Nel XVIII secolo, sta perdendo addirittura i suoi miti, le sue leggende, e l’epica che caratterizzava il suo folklore. L’azione di assimilazione è quasi completa. Quindi, cosa serve per riunire gli abitanti, schiavi di una potenza straniera, sotto una comune insegna? Una storia, o, più precisamente, una saga.
Per saga s’intende una raccolta di storie di popoli nordici/scandinavi, che in queste ritrovavano i propri riferimenti culturali e civili. Nell’epoca in cui è ambientato questo fumetto, l’Islanda ha perso ogni suo appiglio culturale indigeno, ed i valori, o pseudo valori, a cui fa riferimento, sono tutti danesi, quindi d’importazione straniera.
Grimr affronterà ogni sorta di peripezia e queste andranno a costituire una vera e propria saga (basti vedere il titolo del fumetto). L’odissea di Grimr attraverso questa terra così burbera è estremamente affascinante. Ma cos’è che la rende così unica?
Appena apriamo il fumetto, non ci troviamo nessun tipo di frontespizio, ma abbiamo un signore anziano, che s’ interroga su un certo giovane: il nostro Grimr, appunto. Qualche vignetta dopo, riflette sull’effettiva importanza delle saghe nella cultura di un popolo e su come queste siano collegate tra di loro. Giriamo pagina, e ci troviamo il normale frontespizio di un’opera, con titolo, autore, casa editrice e tutto quanto. Siamo proprio sicuri che questa scelta sia casuale? Secondo me, per niente.
È come se il materiale narrativo presentatoci dal volume, partisse solamente con le vicende di Grimr, e l’anziano signore, appartenente alla nostra realtà, fosse in cerca di storie, o meglio, della storia. Queste due realtà si confondono, si intrecciano all’interno dell’opera per arrivare, nell’epilogo, a giustapporsi. Questa comunione si vede a pieno nell’explicit finale: “Perché la prova è qui. Immensa. Supera tutto ciò che potevo immaginare. La grande impronta di Grimr, incastonata per sempre nel corpo dell’Islanda”.
Grimr e la sue peripezie diventeranno il fulcro attorno al quale il popolo d’Islanda si riunirà e ritroverà finalmente la sua coesione. Una storia, che da individuale si universalizza e rappresenta i valori fondamentali, sui quali si baserà la nuova società islandese, libera, fiera ed indipendente da qualsiasi dominio straniero. Libera, fiera ed indomita come Grimr.
Vorrei citare, in chiusura, un passo tratto da King Thor #4, fumetto della Marvel uscito in America nel gennaio del 2020:
Storie. Alla fine è tutto ciò che saremo. Che ci lasceremo dietro. Delle storie narrate e rinarrate attraverso il tempo. Le più grandi sono quelle che non muoiono mai. Le storie immortali. Incoronate. Le più meritevoli tra le nostre tante fantasie. Queste sono le storie… di cui sono fatti gli Dei.
Non moriranno mai le storie che il giovane Chinaski scopre in biblioteca. Sharon Tate vivrà per sempre nella folle ucronia tarantiniana. L’Islanda non verrà mai soggiogata finché avrà un Grimr che la protegge.
Grazie per avermi seguito in questo delirio. Spero che vi siate divertiti con me. Se vi ho incuriositi, lascerò come sempre i link per recuperare queste opere on line, qualora siate impossibilitati a recarvi in libreria. Fatemi sapere cosa ne pensate, e se avete trovato pertinenti le mie riflessioni.
Un saluto, e buon viaggio!
Gabriele
Link amazon:
Panino al prosciutto – C. Bukowski – 1982 – Guanda
C’era una volta a…Hollywood – Q. Tarantino – 2019
La saga di Grimr – J. Moreau – 2018 – Tunué