Da quando “4 ristoranti”, il tv show dello chef Alessandro Borghese, è entrato nelle nostre case, andare al ristorante ha tutto un altro sapore
Ovvero come è cambiata una normale cena tra amiche da quando va in onda il programma di Borghese “4 ristoranti”
La Cena tra Amiche. Dopo esserci scannate per definire una data ed esserci scambiate una cosa tipo 1.436 messaggi WhatsApp sul gruppo “Amiche del cuore”(ed un ulteriore buon 15%, su chat private per sparlare di quello che succede nella chat ufficiale) e dopo una ricerca infinita di un posto dove cenare che mettesse d’accordo tutte (in ogni gruppo di amiche che si rispetti c’è sempre: una che vuol spendere poco, una che vuol star vicino casa, quella che vuole mangiare alle 6 e tre quarti perché porta anche il bimbo, quella che “scusate ma io non ci sono prima delle 9“, quella a cui non piace la cucina cinese-giapponese, quella che “la pizza no perché l’ho già mangiata giovedì”, quella che esordisce sempre con “A me va bene tutto” ma poi ha da ridire su qualsiasi opzione proposta perché sotto sotto ha già deciso dove ceneremo e forse ha pure già prenotato-in genere io rientro in quest’ultima categoria, ma non ditelo alle mie BFF-) finalmente arriva la tanto desiderata sera della cena.
Non appena arrivate fuori la porta del ristorante
proprio come ci insegna Borghese in “4 Ristoranti”, facciamo una prima analisi di come si presenta il locale: “molto carino però .. eh eh eh.. si è fulminata una lampadina led della bobina da 50 metri che avvolge l’ulivo accanto alla porta di ingresso” e poi “mmm.. quelle peonie poste sotto il campanello non è bello che in dicembre, con 2 gradi sotto lo zero, non siano ancora fiorite”. Nonostante queste evidenti negligenze, la pancia inizia a brontolare ed entriamo.
Varcata la porta di ingresso
il nostro innato talento di interior designer si palesa e passiamo ad una attenta e scrupolosa analisi dell’arredamento per verificare che lo stesso sia perfettamente in linea con la personalità dello chef, che noi, naturalmente, conosciamo già alla perfezione, non di persona s’intende, ma lo abbiamo psicoanalizzato grazie alle risposte che ha lasciato sotto le recensioni di Tripadvisor e sappiamo già se costui è una persona paziente ed educata, che ringrazia sempre tutti “per le critiche costruttive” o se invece si diletta a rispondere a tono ai clienti che, si sa, hanno sempre ragione, anche quando fanno una critica pessima solo perché non sono riusciti a prenotare ed il locale era pieno (..maybe).
Superato il test sull’arredamento passiamo adesso ad un esame del tovagliato: con decennale esperienza nel campo della vendita al dettaglio e all’ingrosso di filati e tessuti naturali, ci accorgiamo subito che “la tovaglia si compone di una percentuale eccessivamente alta di Poliestere”: avremmo gradito maggiormente appoggiare i nostri nobili gomiti su una pregiata tovaglia in lino bianco, naturale ma grezzo, ricamata a mano.
Ordunque passiamo adesso alla verifica della mise en place e della posata: tristemente constatiamo che non si tratta di veri monili di argento 925 ma soltanto di banali posate in acciaio inox satinato e, miseramente, ce ne hanno date soltanto 3 per commensale: 1 cucchiaio, 1 forchetta e 1 coltello. Grazie a Csaba ci aspettiamo a tavola un minimo di 3 forchette site a sinistra del piatto, 2 coltelli e 1 cucchiaio sulla destra e, sarebbe gradito, un centrotavola di ortensie, fresche of course, di 50 sfumature di blu.
A casa poi apparecchiamo con un piatto comprato nel reparto Outlet di Ikea, quello che sta sempre prima delle casse, e ci facciamo bastare una forchetta per mangiare tutto, dalla minestra al dolce, ma questa è un’altra storia.
Niente ci soddisfa ma non abbiamo alternative e ci accomodiamo su sedie in legno con il fondo in paglia, che neanche alla Sagra del Ranocchio di Vada saremmo state tanto scomode. Rischiamo pure, impavide e temerarie, di smagliare la calza 20 denari opaca comprata per l’occasione da Calzedonia e pagata 14,90€ che ci deve durare, una cosa tipo, tutta la vita a stu prezzu.
Arriva finalmente l’ora di gustare i piatti, ma
neanche a dirvelo, noi mangiamo solo alici del Mar Cantabrico e queste provengono dal Calambrone, l’aglio rosso usato per la bruschetta non è quello di Sulmona, i gamberi rossi, si, sono di Mazzara del Vallo ma, è un prodotto decongelato e non abbattuto in barca a una temperatura di -40°, il pecorino chiaramente non è quello di Pienza stagionato in Barriques e il pesto non è fatto con il basilico di Pra, chiediamo un hamburger ma non hanno Black Hangus: l’ennesima delusione.
Paghiamo un conto salato e ce ne torniamo a casa deluse e pronte a lanciarci in una recensione negativa sulla quale sfogare tutte le nostre frustrazioni.
Ma da quando non siamo più capaci di goderci una cena?
Da quando controlliamo l’origine delle farine con le quali è stata impastata la pizza e abbiamo la necessità di sapere con esattezza per quanti secoli è lievitata per capire se è buona o no? E cosa ce ne deve fregare se i pelati usati per la salsa non sono pomodorini del Piennolo coltivati sulle pendici del Vesuvio, se la cena è stata piacevole? Se siamo stati bene e abbiamo mangiato su tovagliette di carta davvero mi dovrebbe importare?
Non siamo i protagonisti di 4 ristoranti, non veniamo pagati come giudici a Masterchef e in comune con Cannavacciuolo al massimo c’abbiamo la FAME!
Ben vengano i posti semplici e spartani, le schiacciatine divorate al volo sul lungomare a Caletta e il frittino di Jhonny Paranza mangiato sulle panche in Piazza Mazzini insieme a gente mai vista e conosciuta, lodate siano le trattorie che ti servono un piatto di pasta al sugo ricco e buono senza impiattamento e i camerieri sdentati che lavorano con il sorriso per tutta la sera.
Siamo così pieni di sovrastrutture e di preconcetti che ormai non siamo più capaci di assaporare liberamente ne ciò che mangiamo e ne ciò che viviamo: il cibo come la vita, le relazioni.
Ci stiamo perdendo il piacere delle cose semplici sempre alla ricerca di un’eterna perfezione che non esiste e che non troveremo mai.
Stavo tanto bene quando per merenda andavo da nonna mi tagliavo una fetta di pane, aprivo il frigo e ci buttavo sopra 3 litri di maionese Calvè e poi succhiavo pure l’eccesso che rimaneva sulla punta del tubetto, nascondendomi dietro la porta del frigo; oppure quando, a 17 anni, accompagnavo Eugenia, in pausa dallo “studio” a prendere il panino con il salame spagnolo e l’estatè in brik al limone alla botteghina in Piazza del Cavallo.. il pane poteva pure esser quello del giorno prima ma noi leggere e spensierate neanche ci facevamo caso.
Piesse: Oggi compriamo solo prodotti Bio, Km 0, mangiamo Granola, Tofu, Seitan e Avocado toast… forse vivremo più a lungo, ma questo farà di noi anche persone più felici?