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EP.1 – La Città Incantata: l’importanza di essere brave bambine

EP.1 – La Città Incantata: l’importanza di essere brave bambine

Good girls go to heaven, bad girls go everywhere

“Good girls go to heaven but bad girls go everywhere” era originariamente il titolo di una canzone di Meat Loaf (pseudonimo di Marvin Lee Aday) del 1991, diventato poi in quell’epoca confusa che sono i primi anni duemila un motto da stampare su certe t-shirt per ragazze, bad girls only, s’intende.

Viviamo tempi in cui l’originalità è l’unica quota da esibire per accaparrarsi un posto nella parte di società che conta (Instagram), e nei quali accaparrarsi questo posto diventa una lotta di tipo darwiniano.

Bisogna essere ragazze di carattere, farsi largo con aggressività, sostenere sé stesse fino all’esasperazione, esibire tutto e non guardarsi indietro. E’ l’epoca della donna che non deve chiedere mai, per citare lo slogan di una nota pubblicità.

Essere una brava ragazza in tempi del genere è quasi sinonimo di debolezza e prevedibilità, aperta testimonianza di mancanza di carattere.  Quante volte ci è capitato di doverci vergognare dell’essere definite “brave ragazze”, di mostrarci più spericolate, meno abbottonate, più disinibite? Il ragazzo con cui sei uscita mezza volta ti ha definita una “brava ragazza” e tu sei già lì che  ti affretti a raccontargli  di quella sbronza epocale risalente al duemilaquindici, l’ultima volta che ti sei lasciata andare, e non ti è nemmeno piaciuto. Ti giustifichi.

Le brave bambine dicono “grazie” e fanno tutti i compiti a casa, faranno l’università, troveranno un lavoro tranquillo, un lavoro comune. Le ragazze cattive invece, scopriranno a sedici anni un qualsiasi talento monetizzabile, non avranno bisogno dei tuoi anni di istruzione, non avranno bisogno di dire “grazie”, vivranno la vita spericolata che la selezione naturale permetterà loro.

Le brave ragazze andranno in paradiso, ma le cattive ragazze andranno dappertutto.

 

Non è così?

Non è così.

 

La Città Incantata

Ne è la prova la dodicenne Chihiro, protagonista del film d’animazione La Città Incantata (per gli amici anglofoni: Spirited Away) che porta la firma di Hayao Myiazaki (Prod. Studio Ghibli, 2001), Oscar al miglior film d’animazione nel 2003.

Chihiro, indiscutibile brava bambina, tanto per cominciare non finisce in paradiso ma in una città incantata.

Ci arriva per caso, colpa di una deviazione in macchina lungo la strada per la nuova casa dove andrà ad abitare e della curiosità dei genitori che sono quella coppia generica di personaggi dei film d’orrore che di fronte ad un pertugio buio ed una casa infestata non sanno resistere alla tentazione di organizzarvi una bella escursioncina all’interno.

La città incantata peraltro non è affatto simile al paradiso. Gestita da una maga senza scrupoli, Yubaba, si sorregge sulla forza lavoro di creature a tutti gli effetti schiavi di un curioso stabilimento termale che accoglie divinità di ogni tipo. L’essere forza lavoro non retribuita è comunque preferibile alla seconda opzione, quella di venire trasformati in animali dalla già citata Yubaba nel caso non fosse possibile trovare un lavoro all’interno dello stabilimento.

 

La tenerezza

A spiegare a Chihiro il meccanismo su cui si sorregge il luogo, oltre alla prova empirica del vedere trasformati in suini i proprio genitori, è Haku, ragazzino dai tratti femminili e lo sguardo fermo, che si dimostra sensibile alle sofferenze di Chihiro e l’aiuta nell’unico modo in cui si aiuta davvero una ragazza in un momento di difficoltà: offrendole da mangiare. Dopo giorni di permanenza nella città e digiuno, grazie ad Haku e al cibo che le ha procurato Chihiro si lascia finalmente andare ad un pianto liberatorio. E’ il primo, ed anche l’unico momento di sconforto che avrà, a riprova del fatto che il binomio fra una buona condotta e il coraggio è non solo possibile, ma anche l’unico forse, in grado di sbrogliare la matassa di certi momenti difficili. Per quanto riguarda Haku, tutte le sue gentilezze nei confronti di Chihiro sono regolate da leggi umane ben note a molti di noi, che la sottoscritta è in grado di comprendere, ma non di mettere in parole. Le si possono però raggruppare in un unico vocabolo: la tenerezza.

 

La tenerezza è a senso unico, si tratta di una delicata rete di gesti senza dimensione ma pieni di significato.

E’ una cosa che si apprende col tempo, frequentando per prima cosa la gentilezza.

L’importanza di essere brave bambine

La struttura elementare della favola implica, perché il protagonista riesca nella sua impresa, l’intervento di un aiutante, o una rete di aiutanti. Il primo aiutante Chihiro se lo guadagna proprio con una gentilezza: è Kamaji, l’uomo aracnide che gestisce il locale caldaie della Città ed un piccolo esercito di fuliggine (sì, fuliggine) impegnata, così piccola, nel trasporto di carichi pesanti fino alla fornace. Chihiro, colpita dallo sforzo di una delle minuscole creature, decide di aiutarla nel suo impegno, trasportando il carbone alla fornace al posto suo, non senza rischio e fatica.

Nell’avanzare richieste non dimentica mai di alternare gli imperativi al gergo dell’educazione. Non se ne dimentica neanche di fronte alla spietata Yubaba, che minaccia di morte i suoi genitori. Porta a termine anche il più infamante dei lavori che questa le propina (accogliere il Dio Putrido) senza lamentarsene esplicitamente. Presta udienza e fornisce una spiegazione della sua fretta persino a Piccino, il mastodontico bebè di Yubaba, che in un momento di difficoltà pretende che la ragazzina giochi con lui, si trattiene in compagnia della maga Zeniba, gemella buona di Yubaba, anche dopo che questa le ha rivelato di non poterle essere utile al fine di portare a termine la sua missione.

Tutto questo Chihiro lo fa perché è una brava bambina. E la sua rete di preziose conoscenze glielo riconosce subito: la gentilezza, la correttezza e l’impegno sono la sua essenza, l’essenza di ogni brava bambina.

È così che si guadagna i suoi aiutanti, Kamaji, Haku, Zeniba, persino Piccino. E’ solo così che riesce a portare a termine la sua missione: avendo cura degli altri.

 

La fermata numero 6

Che decidiate di stare fra le cattive ragazze che vanno ovunque, o fra le buone che vanno in paradiso, o più correttamente decidiate di non lasciarvi etichettare, ecco qui di seguito una buona ragione per guardare questo film. (Oltre al fatto che è facilmente reperibile su Netflix e che il meteo dell’ultimo periodo non incoraggia certo ad uscire, s’intende).

Le prove che Chihiro dovrà affrontare per salvare sè stessa e i propri cari implica una persona da raggiungere ed una destinazione. E’ la fermata numero sei (omonimo titolo della delicatissima colonna sonora), nei pressi della quale vive la maga Zeniba.

E allora ecco una scena delle più belle che io ricordi in un film d’animazione:

Un treno, un treno vero, come noi lo intendiamo, viaggia su binari d’acqua e consegna a solitarie fermate passeggeri inconsistenti, grigi. Chihiro viaggia accompagnata da due buffi animaletti ed una singolare creatura fantasmagorica il cui volto è una maschera imbronciata. Si siede comoda, perché sa che l’aspetta ancora un lungo viaggio, e intende goderselo per quello che può, ma non da sola. Con due colpi della mano sul divanetto invita il suo fantasmagorico amico a stare comodo accanto a lei, a godersi il viaggio con lei. E’ ancora una volta un insegnamento attraverso una gentilezza.

Perché le cattive ragazze andranno anche ovunque, ma solo le brave ragazze escono indenni anche dalla più ostile delle città incantate.

Francesca Cullurà

È laureata in Lettere all’Università di Firenze ma se la cava discretamente anche nella sacra arte del darsi l’eyeliner. I suoi interessi sono la letteratura, la Formula1 e il vecchio cinema italiano. È convinta di saper guidare meglio di molti uomini.

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