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Hume e l’esperienza – Tra scetticismo e naturalismo

esperienza

Poche cose sembrano avere un impatto così forte sulla vita dell’uomo quanto la guida dell’esperienza passata. Questo bagaglio che ci si porta costantemente appresso influisce in modo determinante nelle scelte da compiere, le quali andranno a loro volta a riempire quello stesso zaino delle esperienze.

Il concetto di “esperienza” è da intendersi nel senso più inclusivo possibile: dalla preferenza di certi sapori alle risposte emotive proprie e altrui a certi stimoli, dall’associazione logica fra due determinati eventi alla risoluzione di problemi attraverso soluzioni familiari, già utilizzate in circostanze analoghe. Insomma, l’orizzonte dell’esperienza passata definisce una fiducia pressoché incrollabile, punto nevralgico dal quale passano tutte le condotte di comportamento.

Un’analisi filosofica più consapevole, tuttavia, lascia emergere una serie di problemi rilevanti. Andrebbe chiarito, infatti, se l’esperienza passata possieda un fondamento logico a cui appellarsi e se l’uomo possa vestire la propria fiducia di una giustificazione razionale.

Nella storia del pensiero occidentale, sono state due le correnti classiche a tentare di rispondere al problema sollevato sopra. Da una parte lo scetticismo, intransigente nel ritenere l’esperienza una fonte di conoscenza fittizia, illusoria, arrivando persino a negare la realtà del mondo esterno e quella individuale. Dall’altra parte, il naturalismo considera l’esperienza un elemento naturale, dunque affidabile nella riproducibilità delle proprie dinamiche, dunque degna di fiducia da parte dell’uomo.

Nel tentare di districarsi fra scetticismo e naturalismo, interessante è la posizione intermedia partorita dalla mente di David Hume lungo gran parte del ‘700. Il filosofo scozzese, da una parte sosteneva che l’esperienza, nonostante sia l’unica fonte possibile di conoscenza umana, non potesse garantire un sapere futuro certo, conseguenza diretta della mancanza di un fondamento razionale al quale sorreggersi. Dal sorgere del sole, avvenuto sino a oggi, non segue necessariamente l’impossibilità di pensare che questo domani non sorga. A differenza del pensiero che 2+2 faccia 5, impossibile anche solo da concettualizzare. La differenza humiana fra materia di fatto e relazioni di idee.

Dall’altra parte, Hume riconosceva che, di fatto, l’uomo è portato naturalisticamente ad apprendere attraverso l’esperienza, per quanto poco razionale possa essere. Nell’orientarsi nella dimensione conoscitiva dell’esperienza, l’uomo utilizza, tuttavia, non un principio logico, bensì psicologico: il principio della consuetudine. Sostanzialmente, la sola ragione non è in grado di spiegare e giustificare comportamenti o eventi senza l’aiuto dell’esperienza. È necessario rintracciare questa giustificazione in modo naturalistico, attraverso la forza psicologica dell’abitudine.

La consuetudine agisce a livello neurobiologico, producendo nell’uomo una certa inclinazione – che Hume chiama credenza – a partire dalla ripetizione di determinati fatti: se ripetutamente si è visto che fuoco e fumo, rispettivamente causa ed effetto, sono sempre stati connessi fra loro, allora ogni qualvolta si avvista del fumo siamo inclini ad attenderci del fuoco, e viceversa.

L’universo intermedio in cui si muove Hume permette di accettare il fatto che tutte le inferenze tratte dall’esperienza possano essere giustificate soltanto sul piano psicologico e, contemporaneamente, di sfruttare l’utilità delle stesse. Detto altrimenti, il fatto che l’esperienza non si porti dietro inferenze assolutamente certe non è condizione sufficiente per negare l’utilità di pensare che il futuro sarà conforme al passato, e muoversi nel mondo sulla base di questo.

Inoltre, senza l’abitudine e le credenze da questa generate, la nostra vita sarebbe gravemente compromessa, dal momento che ci sarebbe preclusa la possibilità di fare qualsiasi tipo di previsione o progetto ai fini della nostra esistenza quotidiana.

Hume ne conclude che, se inferire determinati effetti a partire da determinate cause è un processo così utile alla sussistenza dell’uomo, allora è ovvio che la natura, nella sua saggezza, abbia affidato tale processo non alla ragione, lenta nelle sue operazioni e a volte fallace, ma ad un qualche istinto o tendenza più infallibile, più meccanica, ovvero all’abitudine.

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