Tre minuti. Soltanto tre minuti aveva suonato, quel disco sul piatto. Ma era stato come un colpo di fulmine fatale, un’improvvisa, potente illuminazione, un pugnale che si era infilato, lento e deciso, nelle sue carni bianche. Quella musica era così bella che lei adesso non riusciva più a fermare le lacrime e pensare ad altro: il primo minuto l’aveva stregata, il secondo conquistata, il terzo espugnata. Erano tanto magiche, quelle note, che all’improvviso si erano prese il senso di tutto; malinconiche ma luminose si erano insinuate sotto la pelle, fin dentro le sue ossa.
A sfidare la sua vena folle – che si rifletteva in una strana luce negli occhi grandi – la prima volta era stata la Seconda guerra mondiale, quando aveva servito come volontaria nell’Africa equatoriale, nell’esercito di France Libre contro Hitler. Era diventata agente dei servizi segreti di De Gaulle. E poi voce di radio Brazzaville, e autista di camion militari e ambulanze in Libia, Nigeria, Congo, Egitto, Ghana. Già in quella occasione era stato duro il ritorno alla routine domestica, per quanto agiata. Ora, era bastata quella melodia a farle sembrare la sua vita scialba e insignificante, un gioiello tanto luccicante quanto vuoto, privo di autentico valore. Nica sentiva forte quel dolce e ineffabile richiamo: la sua esistenza stessa sfumava là dentro, smarrendovi ogni senso. La sua famiglia, suo marito, i suoi cinque figli, il viaggio verso casa, il significato di ogni cosa si dissolveva dentro quel jazz come zucchero nel caffè. Allora, quasi in trance, chiese all’amico pianista jazz Teddy Wilson – “il pianista swing definitivo”, così era stato definito quel nero con i baffetti e lo sguardo furbo – di fargliela sentire ancora, forse si era sbagliata, non poteva credere che le sue orecchie avessero appena ascoltato qualcosa di tanto struggente, qualcosa che era dolore e conforto al tempo stesso. E poi ancora, nonostante lui la richiamasse alla realtà: “You’re going to miss your flight, Nica” “perderai il volo”. Ma a lei non importava più niente di quel volo e insisteva: “Once more, please, Teddy, once more”. Soltanto un’altra volta, supplicava. Finché quel pezzo non suonò sul piatto venti volte, dalla prima all’ultima nota, e intanto era passata più di un’ora e si era fatto tardi e l’aereo si era alzato in volo per l’Inghilterra senza di lei, dopo che la hostess aveva più volte inutilmente annunciato: “Il volo per Londra è in partenza dal gate 9. Mrs. Kathleen Annie Pannonica Rothschild è urgentemente richiesta al gate per l’imbarco”.
Dopo l’ultimo ascolto la baronessa chiese a Wilson: “Come si chiama?”. “Round Midnight”, fece lui. “E chi è? Voglio dire, chi è l’autore?” “Oh, un jazzista pressoché sconosciuto… Si chiama Monk. Thelonious Monk”. Eppure di musica ne aveva ascoltata tanta, la baronessa Pannonica de Koenigswarter, ma nessuna le aveva mai fatto quell’effetto, come di paralisi. L’Inghilterra, gli affari, la vita domestica, la società, la Rolls Royce, i ricevimenti, le ville, tutto passò in secondo piano: ormai erano cose lontane, accessorie, senza importanza. L’essenziale era quella musica jazz, scoprire chi era l’artista che l’aveva creata, magari incontrarlo. Anzi, non magari: assolutamente, a costo di qualsiasi cosa. Ormai tutto girava intorno a quelle note. Lei doveva restare a New York e cercare di conoscere quel jazzista dal nome strano e altisonante che sembrava inventato apposta per finire sulle locandine dei grandi concerti: non poteva essere uno qualsiasi, uno con un nome lungo e strano quasi quanto il suo. Se è vero che il destino è scritto nei nomi, il suo sarebbe stato speciale. La sua musica parlava chiaro, del resto: era un genio, puro e semplice, e non c’era niente che non avrebbe fatto – non c’erano soldi che non avrebbe speso, posti dove non sarebbe andata – per rendergli la vita più facile. Doveva aiutarlo, questo promise a se stessa. Era il 1948 e il be-bop era ormai affermato – pur non essendosi sviluppato in modo intenzionale, come ebbe a specificare lo stesso Monk – come un movimento di ampio respiro tra i musicisti jazz di New York, centro della nuova musica. Con l’imminente scomparsa delle grandi band swing, il bebop, nelle sue varie declinazioni, era diventato il fulcro dinamico del mondo del jazz. Monk era un trentenne tanto imponente quanto schivo che aveva appena sposato Nellie Smith, una giovane sarta dalla pelle nera e i tratti asiatici. Le sue registrazioni interessavano a pochi, a parte i colleghi musicisti e gli amanti del jazz come Pannonica, che lo consideravano un genio incompreso. I negozi di dischi non lo volevano e ai suoi concerti non andava nessuno; per giunta era reticente, e con i giornalisti non spiccicava parola. La baronessa Pannonica Rothschild invece era una nobildonna graziosa ed elegante di 35 anni. Alta, magra, pallida, con un viso lungo e stretto e un portamento da ricca. E ricca lo era davvero, la baronessa, perché apparteneva a una delle famiglie più potenti del mondo. Ma, a costo di venir diseredata, cosa che puntualmente successe, non partì più. Non tornò mai più a casa. Non si precipitò in strada per acciuffare un taxi che la portasse all’aeroporto, non prese un altro aereo, magari il successivo, nonostante non le mancassero certo i denari: ignorando gli appelli del marito e dei cinque figli che l’attendevano in Messico, si trasferì in una suite dell’hotel Stanhope sulla 5th Avenue – che diventerà la sua casa per anni – e cominciò a darsi da fare per rintracciare il musicista, cosa che le riuscì soltanto nel 1954, sei anni dopo. Non poteva fare diversamente: del resto, nonostante tutta la musica che aveva ascoltato, mai le era successo che una melodia entrasse nella sua vita e la mettesse sotto sopra, come una violenta folata di vento. O forse a ben vedere un’altra occasione c’era stata. Sì, a ripensarci le era già successo qualcosa di simile, seppur meno potente. Era stato grazie al suo onorevole fratello Victor: appassionato di jazz, nonché biologo, dirigente della Shell e della banca di famiglia, in seguito consigliere dei governi di Edward Heath e Margaret Thatcher e sospettato di essere una spia dei sovietici, era stato mandato da Churchill negli Stati Uniti a condurre le trattative con Roosevelt. Era tornato carico di musica straordinaria e le aveva fatto ascoltare la registrazione di Black, Brown and Beige di Duke Ellington. Ma qui dobbiamo aprire una parentesi per capire meglio la provenienza della baronessa. Verso la fine del diciannovesimo secolo, il ramo britannico dei potenti Rothschild, la famiglia più ricca del mondo, possedeva una collezione d’arte inestimabile, l’attenzione del primo ministro e decine di tenute in campagna: la più famosa si trovava nella fertile Valle di Aylesbury, un’ampia pianura drenata dal Tamigi nella contea del Buckinghamshire, nel sud-est inglese: Waddesdon Manor, una perfetta replica vittoriana di un castello francese, voluta dal barone Ferdinand de Rothschild nel 1870 per esporvi le sue collezioni. Quell’enorme, sontuosa reggia traboccava di servitù, mentre a Tring Park i commensali potevano raccogliere i frutti direttamente dai rami degli alberi nel parco. La routine in quelle tenute era immutabile come il marmo delle loro colonne. Nica, nata nel 1913, era cresciuta in quelle enormi ville di campagna: Tring Park, nell’Hertfordshire, adesso ospita una scuola di danza (Tring Park School for the Performing Arts), mentre il Waddesdon Manor venne lasciato in eredità al National Trust for Places of Historic Interest or Natural Beauty nel 1957. Lì, la graziosa Nico otrascorse i suoi giovani giorni col suo sottile corpo stretto in vestiti bianchi inamidati, cucendo e suonando il piano; i suoi distinti genitori non approvavano l’istruzione femminile e correre o giocare a nascondino era proibito per il timore che gli abiti si sciupassero o strappassero. Pannonica, nome da farfalla e cognome da banchiere, era un esserino strano e delicato, venuto al mondo in una gabbia d’ oro, in un mondo di banche e militari e baroni e ambasciatori e sedi diplomatiche e doveri, e poi ancora inchini e abiti eleganti e cerimonie. Una vita forse invidiabile per tanti ma monotona e noiosa per lei, attratta dalla musica e dall’avventura, per lei che però non conosceva altro. Eppure ora lo sapeva con certezza, adesso lo sentiva più forte che mai: il suo posto non era quello, ma il misterioso mondo del jazz. Nica adorava profondamente la musica jazz, anche se come pianista non era un granché. Ascoltare quei dischi con suo fratello per Nica fu un po’ come varcare un cancello e scoprire un meraviglioso parco selvaggio dove correre a perdifiato e lasciarsi lacerare vestiti e anima. Fu allora che Nica capì che doveva assolutamente entrare nel mondo della musica jazz, un mondo tanto affascinante quanto sconosciuto per lei, reclusa in quello esclusivo e privilegiato della grande dinastia bancaria, quella gabbia dorata in cui era cresciuta. Dal suo matrimonio da copione con il barone Jules de Koenigswater, un distinto diplomatico e militare francese più vecchio di lei, anch’egli ebreo, erano ormai passati 14 lunghi anni. L’aveva conosciuto all’aeroporto del Touquet, nell’alta Francia; lui era ingegnere minerario, banchiere e pilota, già vedovo e con un figlio. Dopo solo tre mesi, nell’ottobre 1935, i due si erano sposati nel municipio di New York, per trasferirsi poi ad Abondant, non lontano da Parigi. Il barone era stato anche ambasciatore francese prima in Perù, poi in Messico e in Indonesia. Con l’ascesa al potere dei nazisti Jules, che era luogotenente, venne chiamato al fronte con le forze della France libre e lasciò a Pannonica una mappa con le seguenti istruzioni: “Se i tedeschi arrivano fin qui, prendi i bambini e scappa con qualsiasi mezzo dalla tua famiglia in Inghilterra”. Pannonica le eseguì nel 1939, partendo da Parigi con quello che sarebbe stato l’ultimo treno assieme ai figli, a una balia e a una domestica; sua suocera, invece, che ignorò le indicazioni di Jules, fu deportata e finì ad Auschwitz: nell’Olocausto morì, nel complesso, gran parte della famiglia estesa di Jules e di Pannonica.
Poco dopo, sempre su indicazione del marito, Nica fece trasferire i figli presso la famiglia di finanzieri e mecenati statunitensi di origine svizzera Guggenheim, a Long Island, e si riunì a Jules in Africa svolgendo varie mansioni (ad esempio autista di ambulanza) e raggiungendo a sua volta il grado di luogotenente decorato.
Ma adesso nella vita della baronessa c’era una nuova priorità: rintracciare quell’erratico jazzista. Così abbandonò mondanità e marito, che al jazz preferiva “le marce militari” e che per dispetto le spaccava i dischi quando era in ritardo per cena. Rimase a New York, dove entrò negli esclusivi circuiti del jazz diventando in seguito amica, confidente e mecenate di tanti musicisti. Fu come coronare un grande sogno: era quella la vita che desiderava. La sera si metteva alla guida della sua Bentley e faceva la spola tra i migliori jazz club di Manhattan: tra i suoi preferiti il Five Spot nel Greenwich Village, e poi il Village Vanguard, il Birdland. Eppure per conoscere Monk Nica dovette tornare a Parigi, al concerto che diede nel 1954 al Salon du Jazz. L’incontro avvenne nel backstage, grazie a una cara amica comune, la grande pianista nera Mary Lou Williams. Quando la baronessa lo vide, seppe che aveva fatto bene. Prima le sue orecchie, adesso i suoi occhi non potevano sbagliare. Era, avrebbe detto molti anni dopo, «l’uomo più bello che avessi mai visto». Ma era l’amore per la sua musica a farla parlare così: Thelonious aveva sì una presenza potente e carismatica, un po’ guru e un po’ santone, ma non era così bello: era un omone nero con la barba e il cappello, l’espressione seria e un po’ assente. Eppure Nica non riusciva a togliergli gli occhi di dosso e in ogni fotografia in cui sono insieme lei lo osserva con sguardo adorante. Dall’attimo stesso in cui si conobbero non ci fu più ritorno, né pentimento ma soltanto amore, nel suo significato più alto. Da quel momento, per quasi tre decenni, Pannonica dedicò la sua vita e il suo patrimonio a Thelonious Monk, pagando le sue bollette, accompagnandolo dai medici o agli spettacoli con la sua Rolls Royce, portando lui e la sua famiglia a vivere nella sua casa e, quando fu necessario, aiutando sua moglie Nellie a farlo ricoverare. Un giorno gli volle fare una sorpresa e gli comprò uno Steinway: lui ci compose Pannonica, Ba-Lue Bolivar Ba-lues are e Brilliant corners. Nel 1957, fu grazie a Pannonica se Monk, dopo una pausa forzata di sei anni a causa di problemi di droga, riottenne la cabaret card e venne ingaggiato dal Five Spot, locale a cui rimarrà sempre legato. Per diversi mesi vi suonò con il suo quartetto, del quale faceva parte un John Coltrane a cui il mondo del jazz guardava con crescente interesse. Il Five Spots gli offrì l’ambiente perfetto per far apprezzare il suo stile, «in quelle sue costruzioni sonore dalle prospettive sghembe, eppure miracolosamente equilibrate, in quella sua musica buia in cui le dissonanze balenano e deflagrano come fuochi d’artificio», come scriveva Arrigo Polillo nella sua storia del jazz. «Incontrando l’uomo, ascoltando la sua musica, vien fatto di pensare a una sorta di Henri Rousseau del jazz». Perché le dissonanze di Monk – «un uomo senza speranze e senza sorrisi» – dopotutto «sono ‘estranee’, assurde, offensive, infantili – e incantevoli! – come i leoni e le verdissime piante tropicali che campeggiano nelle tele del Doganiere, e forse significano le stesse cose». Tramite Monk, Pannonica conobbe molti altri geniali musicisti jazz, di cui divenne molto amica e che aiutò alla stessa maniera: Art Blakey, Bud Powell, Sonny Clark, Charlie Parker, John Coltrane, Charlie Mingus, Miles Davis, Sonny Rollins, Barry Harris e altri. Se l’America della segregazione razziale li trattava male, lei si prodigava per loro pagando affitti, riscattando i loro strumenti dai banchi dei pegni, facendo la spesa per loro, accompagnandoli ai concerti nella sua Bentley argentata e invitandoli a condividere la sua casa quando i tempi erano duri, cioè molto spesso. La sua suite allo Stanhope diventò ben presto un cenacolo musicale: gli altri clienti si lamentavano del rumore, le venne richiesto il doppio del prezzo, poi il triplo, e lei pagava senza battere ciglio, bastava che li lasciassero in pace. “Ho visto che era necessario un enorme aiuto”, disse una volta. “E io non potevo semplicemente stare lì a guardare”.
Tratto da “Love (& Music) Stories – Le storie d’amore più belle della musica” (Odoya, 2019)
P.S.: e buona Festa della Musica!!!