Site icon WiP Radio

Il fascino discreto della criminalità

Il fascino discreto della criminalità

Perché ci affascinano i criminali?

È giusto empatizzare coi modelli criminali che l’intrattenimento ci propone quotidianamente? Questa domanda rimbalza nella mia testa da quando ho iniziato ad interessarmi ad un certo tipo di narrazioni: dal noir ai gangster movie, questi mondi oscuri, labirinitici e claustrofobici mi hanno sempre affascinato. Per i loro paladini ho empatizzato fino all’inverosimile.

Tornando alla domanda d’apertura, secondo me la risposa è sì. O meglio, nì.

È un argomento spinoso, ma proverò a spiegarmi al meglio delle mia capacità. Le figure che ci vengono proposte sono sempre figure filtrate, e anche quando queste si basano su modelli realmente esistiti, si tende a romanzare. Il lato “criminale” del personaggio passa in secondo piano e si tende ad ampliarne il lato umano, così da mettere da parte gli elementi che ci differenziano da quel modello, e favorire così l’empatia.

Se un criminale in potenza conoscesse l’atto poetico, sublimerebbe il proprio gesto omicida mettendo in scena un atto equivalente.

Credo che queste storie, spesso violentissime, esercitino sul fruitore una funzione sociale e catartica. Grazie a queste, la nostra “violenza” viene placata. Questi alter-ego oscuri nei quali ci immergiamo siamo noi, riflessi in uno specchio distorto. Se non ci fosse questo specchio però, le due identità si confonderebbero fino a non sapere quale delle due potrebbe prevalere sull’altra.

Cambiano i nomi e cambiano le situazioni in modo che della figura principale rimanga solo l’alone di mistero che la circonda.

Oggi vi proporrò tre storie di criminali, tre storie che affascinano per la loro oscurità, nelle quali è necessario procedere mantenendo una mano sulla parete più vicina, in modo da non perdersi.

Romanzo criminale

Anni dopo, credo sull’onda di Romanzo Criminale, il noir spopolò per più di un decennio per motivi che evidentemente andavano al di là del “raccontare in modo efficace l’Italia dei segreti” e sconfinavano nell’urgenza di cavalcare un’onda che trovava riscontro nei gusti del pubblico pagante.

Sulle orme di romanzo criminale, l’Italia ha trovato un suo modo di raccontare il noir. Non c’era più bisogno di attingere alla fantasia, bastava guardarsi in casa e scavare nella nostra storia.

La vicenda inizia con l’incontro di due piccoli gruppi criminali, due batterie in gergo. La prima capitanata dal Libanese, e l’altra dal Freddo. Sullo sfondo di un’Italia in perenne cambiamento, questi personaggi diventano trasfigurazioni di un certo tipo di italiano “medio” e si stagliano sullo sfondo di una nazione che evolve continuamente, ma rimane inesorabilmente ancorata al passato.

Il Libanese ed il suo essere nostalgico verso il fascismo pur non avendo mai vissuto sotto il regime. Il freddo col suo cinismo dimostrando spesso di non essere tagliato a pieno per quella vita. Il Dandi, colui che anni dopo verrà definito da un “ex-collega” pentito:

la mente; colui che se non fosse morto, ora sarebbe in parlamento.

Di questo stiamo parlando, di personaggi enormi, che hanno cambiato le sorti dell’Italia per sempre. Questo libro, tra fiction e fatti reali romanzati ad hoc, cerca di riportare la complessità di un’epoca al tramonto e di una nazione che necessita e teme queste figure.

In una città sospesa in un’angoscia insonorizzata, come sotto una nevicata di polistirolo. In una città finita sotto una di quelle teche di vetro dove i vecchi tengono l’immagine della Madonna. O di un Cristo con il cuore sanguinante e la faccia di Aldo Moro. Scialoja sognava Aldo Moro. Milioni di italiani sognavano Aldo Moro. I colleghi sognavano Aldo Moro.

Sciascia dichiarò l’impossibilità di scrivere un giallo che segue le regole del genere ed ambientarlo al sud, proprio per le caratteristiche intrinseche del meridione. De Cataldo, l’autore di quest’opera, apprende questa lezione e la rifunzionalizza applicandola all’Italia intera.

Non si può giocare secondo le regole in una nazione che regole non ne ha. Non è possibile. 

Molti misteri resteranno, come nella realtà, irrisolti, e questo, ancora oggi, alimenta il successo e l’alone di fascino dietro ad opere di questo genere e calibro. L’assurdo, quello vero, entra definitivamente nella storia e nella narrazione di genere.

Rimpiangerete questi tempi che ora considerate oscuri. – Rimpiangere Moro? Il Pidocchio? Bologna? – Vedrà. Lei avrà la fortuna di vivere a stretto contatto con gli ultimi uomini veri. Uomini che hanno passioni e identità. Ma, ahimè, tutto questo avrà breve vita! L’oggi muore e il domani sarà il dominio esclusivo di banchieri e tecnocrati. Ah, e ovviamente di ragazzini rincoglioniti dalla Televisione! Scialoja spense il sigaro. – Mi ha mandato a chiamare ma non mi sta dicendo niente di nuovo. – Può darsi, Ma il problema è suo, non mio. Lei si ostina a cercare un disegno dove non esiste nessun disegno, una trama dove non c’è nessuna trama. La smetta con questa pretesa assurda. Il violino e il calendario riposano l’uno accanto all’altro sul tavolo dell’anatomopatologo, e non c’è niente che li colleghi, se non il caso. Questo non è più il secolo di Hegel. Questo è il secolo di Magritte!

Allucinante.

Appunti per una storia di guerra

Appunti per una storia di guerra è un fumetto scritto e disegnato da Gipi, uscito nel 2004. Ha ricevuto svariati consensi da critica e pubblico, ed è un’opera che, come si evince dal titolo, parla di guerra.

La guerra è solamente il contesto nel quale questa storia si inserisce. L’aria che si respira è quella di un terrore silenzioso, che ti entra in casa, si annida nei tuoi vestiti, nei tuoi affetti, e non ti molla più. I protagonisti sono tre adolescenti sradicati dalla loro famiglia, spinti a diventare i tuttofare di un piccolo boss locale, che tira avanti tra contrabbando e spaccio.

I genitori dei ragazzi non sono mai visivamente presenti, e questa storia, seppur ambientata nella campagna pisana, riecheggia nei tratti, nel vestiario dei ragazzi e nel clima che si respira la guerra jugoslava. Gipi racconta un’adolescenza pura, che solamente nella tragedia diventa consapevole e non viene massacrata dall’ideologia del consumismo.

La storia quindi non è altro che un racconto di formazione in un contesto di guerriglia, ma questi tre ragazzi servono al nostro scopo più di quanto sembra. Uno di loro, in particolar modo, vive questi eventi quasi fosse un testimone inconsapevole. Potrebbe scappare quando vuole, ma subisce il fascino di questa vita, di questo mondo criminale nel quale i tre si trovano, loro malgrado, a vivere.

È meraviglioso notare come Gipi riesca, con suprema maestria, a raccontare l’adolescenza in un modo così nitido e senza fronzoli. Senza rendere eroici dei criminali, senza rendere “super” ed esagerati tre bambini, restituendo il realismo e la complessità di un’età che queste esperienze troncano sul nascere.

Mancando ai nostri protagonisti l’inter-regno, l’approdo dell’adolescenza pienamente vissuta, salteranno dei meccanismi, e questo porterà a delle conseguenze atroci.

Tutto è strutturato per essere credibile al cento per cento, ed anche dettagli “apparentemente insignificanti”, come giocare a pallone tra un colpo e l’altro, restituiscono la complessità di un’età e di una situazione troppo spesso banalizzata e presa “sottogamba”.

Siamo abituati a fruire storie che hanno per protagonisti ragazzini che compiono imprese mirabolanti. Per tutti coloro che amano questo genere di storie, consiglio il recupero di quest’opera, anche solo per realizzare che esiste un via, tutta italiana e rustica, di raccontare personaggi e situazioni che sono nel nostro DNA da sempre.

Il padrino

Il padrino è un film del 1972, diretto da Francis Ford Coppola ed interpretato da Marlon Brando, Al Pacino, Robert Duvall, James Caan e Diane Keaton. Potremmo anche finirla qui, no? 

Primo di una trilogia, questa pellicola racconta le peripezie di Don Vito Corleone, siciliano emigrato a New York da bambino e ora a capo dei Corleone: una delle quattro famiglie che gestiscono la malavita della città.

Il crimine, la malavita, per come la conosce Don Vito Corleone, è ormai giunta al termine. La corsa all’oro e la competizione criminale si spostano su un terreno nuovo, che frutterà più di tutti gli altri affari visti fin’ora: la droga. Il nostro protagonista si opporrà fin da subito a questa nuova trovata; è cresciuto con un certo tipo di modello, e questo nuovo traffico lo spaventa.

Alla stregua di film come Nemico Pubblico di Michael Mann (tra l’altro, bellissimo), queste storie si configurano come dei tramonti epocali per tutti (o quasi) i personaggi che ospitano. C’è una regola base nelle storie: o ti adatti, o muori. Nemico pubblico racconta le gesta dell’ultimo grande criminale americano John Dillinger. L’ultimo perché in un mondo dove i grandi crimini e le grandi truffe iniziavano ad essere perpetrati dal sistema stesso, lui era rimasto il solo a svaligiare banche.

E qui, si racconta il mondo dell’ultimo grande padrino. Si parla, appunto, di ultimi perché questi sono personaggi che delimitano il passaggio da un’epoca all’altra. Non riescono a trovare compromessi col nuovo assetto che si delinea intorno a loro e questi li punisce, fisicamente o spiritualmente. Vengono messi all’angolo.

Vito ha un figlio, interpretato magistralmente da Al Pacino. In quest’ultimo il padre vorrebbe trovare una sorta di riscatto. In un sistema sempre più menefreghista delle regole sulle quali la sua visione del mondo poggia, prova a plasmare il figlio secondo la sua concezione. Come andrà a finire, non ve lo dico, ma sarà un’esperienza meravigliosa e appagante.

È difficilissimo parlare di un’opera simile e troppe parole rischierebbero di risultare inutili. Posso solo dirvi di correre a guardarlo e/o riguardarlo, perdendovi nei meandri di un mondo oscuro, ma non così tenebroso come quello che avrebbe preso il suo posto.

Io credo nell’America. L’America fece la mia fortuna. E io crescivo mia figghia comu n’americana, e ci detti libertà, ma ci insegnave puro a non disonorare la famiglia. Idda aveva un boyfriend non italiano, se ‘nnia o cinema insieme tornava a casa tardi e io non protestavo. Due mesi fa lui l’invitò in machina con n’avutro amico suo.

Le fecero bere Whisky e poi cercarono di approfittarsi di lei. Lei resistette, l’onore lo mantenne. E iddi la pestarono, come n’animale. Quann’arrivai n’ospedale a sa’ faccia faceva paura. A mascidda era rutta. L’aveano cosuta cu’ file e ferro. Nemmeno chiangere poteva tanto era o’ male. E io chiangeve, povera figghia. Idda era a luce dell’occhi mei. Bellissima era! E ora nun sarà mai chiù bedda come prima… m’ha a scusare.. andai alla polizia da buon americano. I due furono pigghiati e processati.

U’ giudice li condannò ma nun aveano precedenti e ci dettero la condizionale: sospensione della pena. Li fecero uscire nello stesso giorno! Io restai dentro quell’aula come un fesso. E chiddi du bastardi mi ridevano in faccia. Allora dissi a mia moglie, per la giustizia dobbiamo andare da Don Corleone.

Grazie per avermi seguito in questo delirio. Spero che vi siate divertiti con me.

Un saluto e buona scoperta!

Gabriele

 

Exit mobile version