Negli ultimi due millenni e mezzo l’obiettivo dei filosofi morali è stata quello di fornire modelli di comportamento da seguire, regole di condotta da accettare, nonché quello di ricercarne un fondamento in solidi princìpi. Si è perso nel tempo, tuttavia, l’idea di una morale legata strettamente all’agire umano, nonostante, in fin dei conti, sia proprio questa la raison d’être della disciplina stessa. E lo sarà anche dopo l’avvento della metaetica.
Qual è il modo giusto di comportarsi? Perché questa azione è buona e quest’altra è cattiva? Perché dovrei comportarmi in un certo qual modo piuttosto che in un altro?
Questi sono solo alcuni degli interrogativi a cui sommi pensatori di ogni epoca hanno tentato di dare risposta. Secolo dopo secolo, diventava sempre più difficile sciogliere i grovigli del pensiero morale, sia perché, a ogni tentativo di risposta, si affiancavano altre domande, sia perché l’intreccio aveva ormai oltrepassato la dimensione terrena, varcando la soglia della fede e della spiritualità.
A gettare le basi di un nuovo tipo di riflessione sulla morale, probabilmente senza esserne pienamente cosciente, fu David Hume nel Trattato sulla natura umana (1739-40). L’intento del filosofo scozzese era quello di criticare il passaggio che viziava ogni sistema morale: la subdola inferenza che introduceva una prescrizione a partire da una descrizione.
«In ogni sistema morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l’autore va avanti per un po’ ragionando nel modo più consueto, e afferma l’esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è o non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve, o non deve, esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti».
Il passo appena citato è l’estratto a cui si fa riferimento quando si parla di quella che è passata alla storia – anacronisticamente – come «legge di Hume»: non è possibile derivare un «si deve» a partire da un «è». Detto altrimenti, non si può giungere a conclusioni valoriali partendo da premesse esclusivamente fattuali.
Poniamo il caso che aiuti una persona anziana a portare la spesa (fatto) e, con questo, mi si dica che ho compiuto una buona azione (valore). Sembra perfettamente corretto passare dalla premessa fattuale alla conclusione valoriale, ma il motivo per cui questo è possibile va ricercato nella premesse nascosta del ragionamento: chiunque aiuti una persona anziana a portare la spesa compie una buona azione. Ecco allora che solo da un insieme di premesse fra le quali ve ne sia almeno una valoriale è possibile trarre una conclusione anch’essa valoriale.
Trascorrerà oltre un secolo e mezzo prima che venga strutturata una vera e propria riflessione di secondo livello sulla morale. Sarà G. E. Moore, con i Principia Ethica (1903), a inaugurare la stagione della teoria morale analitica, un particolare approccio semantico alla dottrina morale, che prenderà il nome di «metaetica».
La riflessione metaetica si propone di indagare, analizzare e chiarificare il linguaggio morale, di modo che l’indagine di primo grado, quella propriamente morale, possa essere più facilmente condotta. Non si tratta dunque di chiedersi cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, oppure di discernere il bene dal male, ma di comprendere il significato delle asserzioni che utilizzano simili concetti morali, al fine di stabilirne il valore di verità.
Ovviamente l’obiettivo del filosofo inglese, come quello di ogni filosofo morale prima di lui, era di fornire una guida per l’agire pratico degli uomini. Infatti la parte analitica e definitoria non sarebbe stata che la premessa della parte costruttiva e normativa, compito vero e proprio della dottrina morale. Sostanzialmente, ciò che avrebbe costituito una solida morale sarebbero stati il supporto dell’analisi concettuale del linguaggio morale, la definizione dei termini centrali dell’etica e la convinzione che gli enunciati contenenti tali termini costituissero giudizi morali.
È in questa fiorente stagione della filosofia morale che prende forma il dibattito sulla natura dei fatti e quella dei valori fra cognitivisti e non-cognitivisti. I primi sostenevano che gli enunciati valoriali fossero, al pari degli altri, veicoli di conoscenza, mentre i secondi, pur facendo riferimento a una vasta gamma di concezioni, erano accomunati dal pensiero che esistesse una discontinuità epistemologica fra enunciati fattuali ed enunciati valoriali. Gli enunciati fattuali avrebbero espresso stati di cose reali, mentre quelli valoriali no.
Ma quella della dicotomia fra fatti e valori è un’altra storia, che, se vi interessa, potete leggere qui: Fatti e valori – Quali connessioni nascondono?