Il primo ricordo che mi viene in mente ripensando a quel magnifico film che è “Marriage story” (Noah Baumbach, 2019) sono lacrime silenziosissime che incendiano le guance.
Charlie è molto competitivo, ama fare il padre […] è estremamente organizzato e scrupoloso, a differenza di me che non sempre lo sono. Mi sono innamorata di lui due secondi dopo averlo visto, non smetterò mai di amarlo, anche se non ha più senso ormai.
Adam Driver nei panni di Charlie Barber, legge parole gentili scritte su un foglio di carta da una persona dalla quale sembra essersi abituato a non ricevere più gentilezze. Gli trema la voce nel solcare alcune parole, gonfia le guance per ricacciare indietro le lacrime ma si tradisce in un tremore del labbro che ha qualcosa di infantile. Al contrario, l’unico bambino presente sulla scena, suo figlio, rimane lucido nel mimare alcune parole che ha imparato a leggere, sono dinamiche che conosce, quelle fra i suoi genitori, e forse ha anche precocemente imparato a starne fuori.
Asciugata la prima mandata di lacrime, ho chiesto di rivedere la scena e, una volta conclusasi, ho chiesto di vederla una terza volta. Chi era con me ha pazientato, ha lasciato che mi crogiolassi nel delizioso dolore che solo un film dalla sceneggiatura solida (per la quale era anche candidato all’Oscar) sa regalare.
I Barber
E’ buffo, e altresì eloquente che un film su un divorzio lungo e logorante abbia il titolo della storia di un matrimonio.
La sottoscritta comunque, non è abbastanza sprovveduta da non sapere che tutte le conclusioni raccontano la loro stessa storia, e che lasciarsi per una coppia è un ultimo appuntamento che per masochistica ironia finisce per ricordare il primo. La distanza che si è creata è una distanza che si è ricreata, se prima era l’imbarazzo di un primo contatto a formarla, ora è la scongiura dell’ultimo. E anche la reticenza nel parlare, o la violenza del farlo, altro non sono che la simulazione triste dell’impaccio dei primi giorni, quando non sai chi hai davanti e cerchi di scoprirlo con delicatezza, ti muovi piano, eviti l’ostacolo, detoni una bomba.
Adesso chi hai davanti invece lo sai, la bomba è già scoppiata e dal fragore nel quale credevate, anzi chiedevate di morire siete sopravvissuti, e la cosa un po’ vi stupisce e un po’ vi offende.
Quel che succede poi è un accoltellamento reciproco che non mira forse a ferire per far male, quanto per portare a galla qualcosa che si è perso, sanguinare per avere la prova di essere ancora vivi, parafrasando una famosa canzone dei The Goo Goo Dolls.
E’ quello che succede anche a Charlie e Nicole Barber (Adam Driver e Scarlett Johansson) sceneggiatore lui, attrice teatrale lei, quando dopo anni di relazione solida e intensa, in seguito al tradimento di lui, decidono di divorziare e lo fanno nel fragore dei vulcani che esplodono, muovendosi con grandi prove attoriali tra le maglie austere di una sceneggiatura fittissima, millimetrica, mimata al dettaglio.
I Kramer
Stessa sorte in realtà era toccata trent’anni prima ad un’altra coppia, i furono coniugi Kramer (Kramer VS Kramer, Robert Benton, 1979) , Joanna e Ted (una giovanissima Meryl Streep ed un insolito Dustin Hoffman, futuri premi Oscar per le rispettive interpretazioni lo stesso anno)
Joanna e Ted sono i pionieri tristi di una generazione senza predecessori, che per prima esperisce la grande libertà individuale che il divorzio rappresenta, e per prima paga lo scotto di questa, fuorviati dalla violenza con cui la loro epoca si scolla dal passato e si proietta nel futuro.
Joanna soffre di depressione e che ha avuto un figlio da un uomo che da molto non ama più e che non ha tempo da riservare alla sua famiglia ed un giorno decide di andarsene lasciando dietro di sé indizi balbuzienti: una lettera di scuse confuse ed una foto muta che non può fornire altre spiegazioni e la promessa di tornare, prima o poi.
Gabbianelle e gatti
Ted a differenza di Charlie, non è un padre preparato all’evenienza di rimanere solo con suo figlio. E’ un uomo dei suoi tempi, da Hoffman a Driver vediamo la fortuita evoluzione della figura paterna attraverso gli anni: se il primo impiega la durata di un film intero ad imparare a cucinare un’omelette, il secondo è invece il tipo di padre che porta al cinema suo figlio e non ha alcuna remora nell’ammettere che, come la sottoscritta, ha versato davanti alla pellicola tutte le lacrime che si potevano versare.
Quella che si instaura fra Ted e suo figlio è la dinamica della gabbianella e il gatto che le insegna a volare, laddove la madre non può più farlo.
Succede che in concomitanza di una situazione di difficoltà si possa imparare e insegnare agli altri anche ciò che a noi per primi non è stato insegnato, o ciò che si pensava non fosse proprio nella nostra natura.
Mummy dearest
Ted fa appena in tempo ad apprendere, perché Joanna manterrà la sua promessa, e allo scadere del tempo di un anno torna a New York.
E’ una Joanna diversa, che non ha asciugato le lacrime ma ha imparato a piangere, e lo fa in maniera incantevole; Meryl Streep otterrà infatti per questa parte magnificente di volti rossi e occhi lucidi l’Oscar per migliore attrice non protagonista, con la critica che ne conseguirà poiché, benché la permanenza in termini di tempo all’interno del film la qualifichi come non protagonista, la prova attoriale è certamente massiccia.
E’ interessante notare come nel ’79 la reazione di Ted all’essere rimasto solo col figlio sia di totale stupore, nel suo imparare a cucinare, a leggere le fiabe, nel suo dimostrarsi sensibile nei confronti del figlio c’è qualcosa che viene reputato straordinario perché implicitamente anomalo.
E la gogna che subisce Joanna in tribunale nell’avanzare la richiesta di custodia del figlio è quella che sembra meritarsi una “madre snaturata” che abbandona il figlio per una necessità psicologica che viene trattata dall’avvocato di lui alla stregua di una velleità artistica.
Non ha dalla sua una Laura Dern (unica candidatura del film a raggiungere la statuetta d’oro) con il suo studio di cuscini morbidi e divanetti colorati, con il fare comprensivo che la parcella comunque garantisce, non gode dei diritti che il tentennio di lotte femministe che intercorrono fra loro concedono invece a Nicole.
Quel che resta dell’amore
Marriage story si apre con le vicendevoli descrizioni degli ormai ex coniugi Barber che procedono per punti di forza, pratica richiesta dalla terapia di coppia. Li vediamo poi urlare e non sentirsi, parlarsi e non comprendersi, si capisce che ciò che li ha legati non trova più la strada delle parole.
Quando nel gradevole studio di un avvocato divorzista al cui tavolo i Barber si sono riuniti con i rispettivi avvocati per negoziare in un safe space il loro divorzio arriva l’ora del pranzo, è Nicole a togliere il marito dall’impiccio di scegliere il proprio pasto, avanza lei al posto suo.
E’ una premura fra persone che si sono vicendevolmente apprese nelle loro abitudini, ed è questo è tutto ciò che resta dell’amore: l’insalata.
Di piccole clemenze i Barber se ne concedono vicendevolmente più di una, il loro è in fine il rapporto clemente di due persone che si sono amate, e ne riconoscono i perché.
Decisamente meno clemente è quello fra i coniugi Kramer, la cui storia di un matrimonio appare sintetizzato in un’unica scena, uno scambio di parole, anzi di sguardi.
All’avvocato difensore di lui che con aggressività chiede a Joanna se il fallimento del suo matrimonio non renda lei implicitamente una moglie ed una donna fallimentare, fiaccata emotivamente dalla situazione questa risponde annuendo, fra le lacrime.
E’ qui per la prima volta Ted a venirle in soccorso, dal banco degli imputati le sorride affettuosamente e scuote la testa, mima un “no”.
No, la fine del loro matrimonio non è una sua colpa.
Ed è finalmente arrivato il momento per lui di ammetterlo serenamente.
Stay together for the kids
Ho la fortuna di non essermi mai dovuta domandare se sia lecito o meno “restare insieme per i figli”, e non ritengo di mia competenza (o di chiunque altro) rispondere a questa domanda.
Tra Marriage story e Kramer contro Kramer intercorre una differenza di focus fondamentale (segno dei tempi?): se il primo ci trascina nelle rapide di un rapporto matrimoniale che naufraga, la seconda ci apre la porta del terremoto privato dei bambini che restano soli, di un bambino che capisce ed ha capito che della sua famiglia non resta niente, ma che può comunque ritrovarla negli occhi di suo padre, fra le braccia di sua madre.
A tal proposito comunque, c’è un romanzo (da cui poi è stato ricavato un film omonimo per la regia di Sergio Castellitto) che potrebbe essere considerato la nostra piccola “Marriage story” italiana: si intitola “Nessuno si salva da solo” e porta la firma del premio strega Margaret Mazzantini.
Delia e Gaetano (nel film Jasmine Trinca lei, Riccardo Scamarcio lui), recentemente divorziati, si ritrovano per la prima volta da soli al tavolo di un ristorante per negoziare le vacanze dei figli. I colpi di teatro si susseguono fra anelli che ruotano su sè stessi come monete e gelati tirati in faccia, ma soprattutto ricordo lei col mascara che cola che dice di aver tenuto gli album del matrimonio, per dimostrare ai figli che prima dell’odio c’è stato amore, che sono stati voluti.
E poi la domanda taciuta di lei, che è forse la domanda che tutte le coppie arrivate a fine di un viaggio si fanno con il medesimo silenzio:
Ti chiedi mai come sarebbe andata? Se invece di mollare avessimo resistito?