Sto pensando di finirla qui. E’ un incipit violento, è una litania. Sto pensando di finirla qui ,un verso a cui affidarsi, una chiave di lettura di ciò che segue, o per meglio dire la spiegazione di ciò che non seguirà. Sto pensando di finirla qui, ma col gerundio, è un progetto in divenire. Sto pensando di finirla qui perché sono a pezzi, come i pezzi di un bicchiere scagliato a terra con violenza. Sto pensando di finirla qui perché una volta che il bicchiere si è rotto non si può vivere come quando era ancora intatto.
O forse sì.
Sul finire
“Sto pensando di finirla qui” (Charlie Kaufman, 2020, Netflix) arriva per me sul finire dello stesso anno nefasto che l’ha generato: il 2020. Non diversamente dall’anno in cui ha visto la luce, è un film cupo, claustrofobico, angosciante, nel quale regna sovrana l’incertezza. Minuto per minuto, fotogramma per fotogramma il film costringe lo spettatore a chiedersi non solo cosa accadrà, ma anche cosa sta succedendo davanti ai suoi occhi.
Allora direi di tirare le fila e ricominciare dalle poche cose certe riguardanti la trama: una ragazza parte con il fidanzato per un viaggio in macchina per incontrare i genitori di lui (non a caso, fra i generi elencati nelle indicazioni generiche fornite da Netflix risulta la dicitura “horror”. Ah-ha).
Peccato che sia già troppo tardi, lei infatti sta pensando di finirla qui.
Con la sua vita forse, primamente, e in seconda base (o prima istanza?) col fidanzato, che non le sembra più la persona di cui si è innamorata, ammesso che ne sia mai stata innamorata, Jake (Jesse Plemons).
Ecco che si verifica il classico valzer dei pro e dei contro entro i quali pretendiamo di incasellare le persone laddove l’amore non viene in nostro soccorso a riempire gli spazi ambigui, i buchi di trama della persona che ci sta accanto. Quella persona che abbiamo scelto un po’ a casaccio fra le altre e adesso pretendiamo che si adatti al nostro schema, che ci completi. L’affetto della protagonista ( o per meglio dire, della narratrice) nei confronti di Jake è ondivago e continuamente in contraddizione, fa leva sui suoi (pochi) pregi, si lascia scoraggiare facilmente dai difetti.
“Ti con zero”
Sto pensando di finirla qui ripete mentalmente la protagonista appoggiando la testa al vetro umido.
Fuori dal finestrino infuria la bufera.
L’auto percorre infatti una strada potenzialmente infinita verso la casa dei genitori di lui immersa in un biancume imprecisato che rende indistinguibile lo spazio circostante, che appare ora privo di riferimenti e creatore di indizi poco chiari, ambigui. I due sono frontalmente viaggiatori nello spazio, ma se ci si alzasse di poco sulle punte ad osservare la scena dall’alto vedremmo l’auto ridursi ad un puntino che viaggia controvento in linea retta,e allora capiremmo che il tipo di viaggio che i due stanno affrontando è in realtà un viaggio nel tempo.
Alle persone piace pensarsi come punti in movimento nel tempo, ma credo sia il contrario. Noi siamo immobili ed è il tempo che ci scorre attraverso, soffia come vento gelido, privandoci poco a poco del calore, ci lascia soli al freddo.
Il tempo preso in analisi nel film però non è quello che scorre, né quello trascorso, ma quello che non si è generato: è il tempo della possibilità.
“Ti con zero”, l’azione prima che si verifichi: è la freccia prima che scocchi dall’arco, lo spettro di possibilità infinite che il suo viaggio può acquisire. Una volta scoccata la freccia colpisce qualcosa e allora è tutto deciso, ciò che poteva essere si riduce a qualcosa che è stato e non potrà mai essere nient’altro.
Stando così le cose, non resta che l’immaginazione, ad offrirci un’uscita sul retro, verso ciò che poteva essere.
Lucy, Louisa, Ames
Sto pensando di finirla qui, ripete la voce narrante. Ci stiamo affidando alla narratrice come ad una protagonista, eppure dopo dieci minuti colei che ci sta parlando, che ci sta confessando questi pensieri così truci ci appare ancora una sconosciuta. Tanto per cominciare, non ne conosciamo con certezza neanche il nome.
Potremmo pensare che si chiami Lucy come la protagonista di una poesia e poi cambiare opinione e dire che si chiama Louisa così come viene presentata da Jake ai suoi genitori, nel viaggio di ritorno questo però la chiama Ames, ma è un nome che non le si adatta, lei stessa vi si trova scomoda all’interno.
E poi potrebbe trattarsi di una fisica per la dimestichezza con cui tratta la materia, di un’artista stando alla galleria di dipinti sul suo cellulare, di una poetessa per la spontaneità con cui compone a braccio, se non fosse che non conosce Wordsworth e allora potremmo pensare che sia una che comunque scriva, per il teatro forse, per la critica cinematografica, e staremmo sbagliando di nuovo.
Adesso, chiunque tu sia cara lettrice o caro lettore, fermati un attimo e decidi: ciò che seguirà saranno paragrafi di puro spoiler, sei proprio sicuro di voler continuare? No? Sei sicuro che non preferisci fermarti qui?
Poi non dire che non ti avevo avvisato.
Qui es tu vraiment?
Per rispondere alla domanda su chi sia la protagonista, a quale nome risponda o cosa faccia davvero nella vita potreste impiegare la durata del film intero, e sprechereste tempo, perché stareste cercando di rispondere alla domanda sbagliata.
La questione infatti non è chi sia davvero la protagonista del film, ma bensì chi sia davvero il protagonista del film. Facendo un passo indietro verso un’altra produzione di Kaufman, il cartone animato “Anomalisa“(Charlie Kaufman e Duke Johnson, 2015) nel quale tutte le figure, uomini e donne che siano parlano indistintamente con voce maschile, con un magistrale rovesciamento, sul finale del film scopriamo che ancora una volta ad una voce narrante femminile corrisponde un protagonista maschile: Jake.
O per meglio dire, ciò che Jake avrebbe potuto essere.
Un artista, un fisico, un cantante di musical, un poeta, un giornalista forse?
Non è diventato nessuna di queste cose, e Lucy, o Louisa, o Ames che dir si voglia altro non è che una sua proiezione, l’esplorazione vivente di un futuro che non ha avuto attraverso la creazione di un tipo di donna a appartenente ad un certo tipo di contesto, da comporre e modificare a suo piacimento.
E’ il frutto della sua immaginazione, l’uscita sul retro.
Confessioni
Per tutta la durata del film ho pensato che il tema sotteso fosse quello dell’Alzheimer come deframmentazione e quindi perdita dell’identità. Altresì, ho avuto due pensieri costanti:
- Questo film è un’angoscia completa.
- Questo film mi pare di averlo già visto.
Non smentendo il primo punto ma promettendo di rettificare più in là, intendo affrontare il secondo. Chi di voi aveva familiarità con la questione dell’arbitrarietà del ricordo certamente riconoscerà nell’organizzazione scenografica lo stile narrativo di “Eternal sunshine of the spotless mind” tra i cui sceneggiatori non a caso figurava proprio il nome di Kaufman.
Ad alcune scene di questo, come ad esempio le fantomatiche scene dell’ “umiliazione” di cui è vittima Jim Carey rimandano altri momenti vissuti da Jake nella fattoria, totalmente alla mercè dell’iperbolico giudizio negativo della madre nei suoi confronti. E se per anni questo è stato letto che dal protagonista come profetico e vissuto come una condanna, proprio sul finire viene invece rielaborato nell’ammissione di colpevolezza.
Quando diventi adulto infatti- chiarisce lei prestando la voce ai pensieri di lui- è necessario distinguere le proprie colpe da quelle dei nostri genitori. Siamo sempre e solo noi gli artefici delle nostre mancanze, non il nostro contesto sociale, non le persone che ci hanno cresciuti, per quanto poco si siano impegnati nel farlo adeguatamente.
C’è di più: il mio rifiuto a pensare che fosse un film sulla possibilità mi derivava anche dalla presenza di un massiccio precedente filmico sul tema che è “Mr Nobody “(Jaco Van Dormael, 2009) , nel quale è il dramma di un bambino costretto a scegliere in seguito al divorzio dei genitori con quale dei due vivere ad imporre una netta biforcazione al suo destino. Sto pensando di finirla qui è tuttavia un’ottima rielaborazione della tematica perché affiancata da un solido impianto stilistico. Tanto per cominciare la prima cosa che si nota è il formato riquadrato in 4:3, sempre diviso simmetricamente in due sezioni, la destra e la sinistra, con l’azione principale concentrata in una delle due e la seconda a far da sfondo in un’ampia profondità di campo in cui tutti gli elementi dialogano allo stesso modo con lo spettatore e l’occhio come la mente spazia e non sa più quale questione affrontare per prima. Dal punto di vista estetico è un prodotto Netflix in tutto e per tutto: dalla scelta fisiognomica del cast allo spettro cromatico che lo mette in dialogo con altre produzioni come Black Mirror, del quale eredita le tinte amare e i toni opachi.
La finisco qui
Sto pensando di aver forse sbagliato a proporre come ultimo consiglio di visione dell’anno un film così cupo, e un po’ me ne dispiaccio. Tuttavia, è importante analizzare la contemporaneità attraverso i suoi prodotti, e penso concordiate che questo sia un film totalmente frutto dei suoi tempi. Va detto che come ormai avrete capito, credo che da qualsiasi situazione di sventura si possa ricavare un insegnamento, e da questo film si possono quantomeno ricavare infiniti spunti di riflessione, come potenzialmente infinito è il diramarsi di ciascuna delle nostre vite.
Con l’augurio che questo anno sfortunato volga al termine in favore di uno decisamente meno cupo, auguri a tutti.
Un bacio da notevole distanza,
Francesca.