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Ma con tutti i posti che c’erano?

autobus

Sarà stato il 2015 e, tra parentesi, si potevano ancora prendere gli autobus.

Era il periodo della vita in cui lavoravo in centro a Bologna, per una fondazione composta da un gruppo di persone fighissime e facevo un lavoro che mi piaceva un sacco. Gli uffici inoltre erano meravigliosi, in un palazzo storico splendido di Piazza Minghetti, con tutte le pareti colorate e pieni di gadgets divertenti che lavorare non sembrava neanche una roba così seria quando in realtà, tutti là dentro si facevano un gran mazzo, molto più di posti in apparenza parecchio più austeri. Il dover frequentare quotidianamente il centro di Bologna, aveva tanti pro e qualche contro. Gli indubbi vantaggi erano, che avevi la possibilità ogni giorno di farti una passeggiata tra queste viuzze e vicoletti fuori dal tempo, strade bellissime, negozi meravigliosi, ristoranti alla moda e bar sciccòsi, (era buono persino il pesce venduto nelle botteghe di via delle pescherie vecchie e poi erano buoni anche i colleghi, cui voglio ancora un gran bene). Di meno buono c’era lo sbattimento infinito per raggiungere il centro con i mezzi pubblici: sugli autobus perdevo anni di vita. Non avete idea delle arrabbiature e dei minuti spesi in telefonate agguerrite alla Tper, la compagnia di trasporti locale, per segnalare che l’autobus che stavo aspettando da mezz’ora non era passato. Altri piccoli grandi drammi, eran legati alle caviglie che rischiavi di slogare continuamente con i tacchi alti tra i vicoli acciottolati del centro e la quantità inimmaginabile di soldi che in quel periodo si sono volatilizzati nei troppi negozi di abbigliamento e profumerie cui passavo davanti nel tragitto ufficio-fermata dell’autobus.

Un giorno dopo il lavoro, mi fermai appunto per passeggiare e fare due compere e poi buona buona mi misi in attesa dell’autobus alla fermata di via Rizzoli. Era ormai ora di cena e gli autobus erano praticamente deserti.
Arrivò stranamente puntuale il 25 e stavolta non dovetti impezzare (bolognese*da attaccare la pezza=scassare la emme) nessun centralinista.
Salii e mi sedetti in uno dei posti singoli che ci son dopo le porte centrali con gli auricolari nelle orecchie che suonavano Daniele Silvestri.
L’autobus era praticamente vuoto, c’eravamo io, l’autista ed una coppia di ragazzi.

Dovevano essere due universitari, i due ragazzi intendo; probabilmente al primo, o massimo secondo anno. Ancora leggiadri, allegri, spensierati, belli e privi di qualsiasi tipo di sovrastruttura: i capelli “spiegati” e legati a cazzo di lei con dei rimasugli di una tinta rosso fuoco sulle punte fatta mesi prima sicuramente in casa da un’amica, e quelli di lui, che uscivano da una papala di lana con il logo stampato davanti, erano castani scuri, un po’ mossi che non vedevano le forbici di un barbiere da almeno un paio d’anni. Lui con i jeans con qualche frittella in qua e là, lei con un giacchetto multicolor sformato di un tessuto sintetico che non teneva allacciato nonostante il freddo porco della gelida serata bolognese. Lei il trucco nero colato dalla mattina ed il piercing ad anello al naso. Sneakers e pantaloni corti sulle caviglie per lui e lei con un pezzo di pelle nuda candida della schiena che fuoriusciva dal giacchetto che riusciva ad esser contestualmente largo ma troppo corto (buon per lei che stava ancora in quella fase della vita in cui le canottiere le usi solo per andare al mare).
E insomma..c’erano sto piffero di autobus con tipo 60 posti liberi dove sedersi, e c’erano questi due che se ne stavano là, lei in braccio a lui a baciarsi come se fossero stati reclutati per girare una puntata di una qualche soap spagnola, ripresa dalla trama di un vecchio Harmony, accatastati l’una sull’altro in un solo posto.
Sono stati 20 minuti lì così, con il rischio di spezzarsi l’osso del collo ad ogni benedetta curva e ripartenza dell’autobus perché la posizione era evidentemente precaria visto che se ne stavano avvinghiati su quel seggiolino arancione che era solo per una persona e figurati, presi com’erano l’uno dall’altra, se usavano le mani per sorreggersi ai pali.

Erano bellissimi. Gli avrei voluto fare una foto ma eran talmente belli che non volevo rischiare di rompere quell’idillio.

Io li spiavo non perché volevo fare la guardona, ma perché erano proprio belli e glielo avrei voluto dire. Sarei voluta andar là a far la vecchia inopportuna a dirgli di goderselo quell’amore là che, il tempo ci cambia, ci rende più razionali, più freddi e più disillusi. Quella ingenuità la perdiamo e con gli anni non sarà più così.

E in questi giorni in cui si avvicina la benedetta festa degli innamorati ed in cui i vostri fidanzati faranno la corsa a dimostrare il loro amore acquistando una scatola di baci in offerta in coop a €4,99, piuttosto che una rosa dal pakistano che sta al semaforo sulla strada per andare in ufficio, ho pensato che la cosa che più vorrei non sono mazzi di rose rosse recapitati in ufficio ma..vorrei un amore così, che con tutto l’autobus libero sceglie di tenerti stretta sulle sue gambe.

Perché alla fine l’amore vero in questo si traduce: nel restare attaccati, uniti, nonostante tutto il mondo intorno a noi muti continuamente e ci sbatta in qua e là. Si resta legati, compatti, malgrado le innumerevoli difficoltà che dovremo inevitabilmente affrontare, come l’autobus quando curvava bruscamente, come quei due ragazzi, che restavano lì fusi e ad ogni curva si stringevano più forte per non cadere.

Buon San Valentino.

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