Triste è il destino di Narciso, condannato dapprima, nel mito, a innamorarsi di se stesso e poi, nel XX secolo, a prestare il proprio nome a un tratto patologico della personalità con cui non condivide alcunché.
In fin dei conti, Narciso non era certo un manipolatore, né nutriva il bisogno d’esser ammirato: erano gli altri, semmai, che lo ammiravano. Che le cause non debbano esser scambiate per gli effetti, era un’ammonizione già ai tempi della logica Scolastica, eredità di quella aristotelica, un’ammonizione divenuta critica spietata con Nietzsche – seppur i bersagli polemici fossero altri.
Ci sono diverse versioni del mito, la cui paternità è incerta, ma in tutte, dopo aver visto la propria immagine riflessa in uno specchio d’acqua, Narciso si toglie la vita, oppure si lascia morire. Altro non è, questa, che la punizione divina per aver respinto tutti coloro che l’amavano, inebriati di quella bellezza quasi metafisica.
Sarebbe difficile, ai giorni nostri, colpevolizzare chi ha scelto di rifiutare l’amore altrui in favore dell’amor proprio. Seppur Narciso sia stato crudele (nella versione greca del mito) a donare una spada ad Aminia – il più testardo tra i pretendenti – affinché si trafiggesse, in un’ipotetica bilancia morale, sarebbe altrettanto degno di biasimo ignorare con tale perseveranza un rifiuto. Chissà, magari oggi il comportamento di Aminia rientrerebbe nella categoria di stalking.
Ma al di là di simili fantasmagorie, tornando con i piedi per terra dopo voli pindarici ad alta quota, va sottolineato che non sarebbe poi così giusto, almeno dal punto di vista morale, reinterpretare un racconto che, come altri del genere, aiutava a convivere con l’imponente presenza degli dei, adottando condotte di comportamento che attraessero il loro favore.
È interessante, tuttavia, rileggere miti come questo con gli occhiali della contemporaneità, le cui lenti hanno assistito non solo all’incredibile evoluzione del pensiero morale e culturale, ma anche alla metamorfosi del linguaggio che, semplificando Wittgenstein, delimita il mondo. Non c’è più la paura della furia degli dei a filtrare le scelte su ciò che è giusto o sbagliato, né i giudizi morali vengono affidati all’influenza altrui – o almeno così dovrebbe essere.
Il mito di Narciso circoscrive la colpa del suo protagonista in un angusto spazio, senza possibilità di redenzione: è impossibile sapere se prima o poi Narciso avrebbe amato un’altra persona come amava se stesso. A dir la verità, neanche saremmo in grado di amarla un’altra persone, se prima non amassimo noi stessi. Invero, l’amor proprio è il fondamento di ogni legame sano con l’Altro, affinché non si corra il rischio di scivolare in relazioni disfunzionali.
In un certo senso, allora, la colpa di Narciso rivela uno dei più grandi doni fatti all’umanità: l’autocoscienza. Dialogare, attraverso l’amore per se stessi, con i più profondi aspetti della propria coscienza è una tappa necessaria per costruire relazioni in cui l’Altro non sia visto né come un aggiunta al proprio Io né come una sua sostituzione.
Lì dove giacque il corpo di Narciso, fiorì un narciso. A fiorire fu anche la capacità umana di imparare ad amare gli altri attraverso l’amore per se stessi.