Per raccontarvi questa storia parto da lontano, da un territorio amichevole, una zona franca che mai pensereste possa condurvi fino alla pellicola di cui intendo parlarvi. Parto dalle zone di MTV nei primi duemil, una sigla orecchiabile, il set cartonato di un ospedale ed un gruppo di specializzandi , molta tenerezza e altrettante risate: in una parola, Scrubs.
Ora, saltando a piè pari la trama, invito quelli che di voi l’hanno visto a seguirmi verso una puntata che forse avrete dimenticato ma che è rimasta scolpita nella mia memoria, quella in cui Elliot si convince di poter guadagnare la stima di Cox facendosi carico del compito ingrato di dare da sola le brutte notizie ai pazienti e alle loro famiglie.
Dopo avervi assolto per una giornata intera, Cox decide di affidarle il caso singolare di una ballerina del Blshoi che ha appena perso una gamba, un fidanzato ed una carriera intera in un incidente d’auto.
Elliot annuisce nascondendo le lacrime, Cox la ferma: “Elliot” , le dice, “Non esistono davvero storie così tristi”.
Ecco, questo è quello che tendo a pensare quando, in piena sindrome di Elliot, decido di aggravare le già spiaceoli serate di zona arancione dedicandomi a quei film che Netflix riassume efficacemente nelle linee guida di “cupo, drammatico, strappalacrime”.
Che, fra parentesi, sono anche le linee guida dell’umore generale di questi ultimi tempi.
Manchester by the sea
La prima volta che l’ho pensato il titolo in questione era Manchester by the sea (Kenneth Lonergan, 2016) film sull’incomunicabilità del e nel dolore, tutto sommato meraviglioso ma come realizzazione postuma, e a dire il vero non azzarderei una seconda visione per confermarvelo.
Patrick è un teenager già orfano di madre, di recente rimasto orfano anche del padre (Kyle Chandler) a seguito di un arresto cardiaco. Essendo minorenne, la custodia di questo passa al fratello minore del padre (Casey Affleck, per la performance Oscar come migliore attore protagonista), uomo inadeguato al ruolo e dal passato drammatico, che non riesce a stare al suo fianco mentre attendono che il terreno ghiacciato si scongeli e possa essere scavato per seppellire il padre, che da giorni staziona in una cella frigorifera.
C’è una scena in particolare che mi ha colpita: è l’ora di cena, mentre lo zio pasteggia con una birra sul divano, Patrick apre il freezer e trova di fronte a sé il pollo surgelato, carne congelata, macabra allegoria della condizione del padre in attesa di sepoltura.
Di fronte a quella scena pietosa, all’attacco di panico che coglie il teenager davanti al freezer ancora aperto ho pensato ci fosse una sola cosa sensata da fare: spegnere il pc, andare a letto.
Dirmi che non esistono davvero storie così tristi.
Ho continuato a guardarlo, nella speranza di una redenzione stessa da parte del film,un atto di gentilezza nei confronti dello spettatore torturato dal dolore di una vita peraltro non sua, di cui avrebbe potuto benissimo fare a meno e del quale invece si fa carico.
Spoiler alert: non è andata come speravo.
Pieces of a Woman
Pieces of a woman (Kornèl Manruczò, 2020) è uno di quei film che riproducono un po’ quello che d’ora in poi chiameremo “l’effetto Elliot”.Ad un certo punto ci si ritrova sole con la protagonista, affacciate al bordo di un ponte a guardare il fiume scorrervi poco sotto in pieno inverno, niente alle spalle e niente davanti e tutto ciò che si può fare è scrollare le spalle e dire: “bah, non esistono davvero storie così tristi”, spegnere il computer e andare a letto.
Pensare che anche questa sia la creazione di un regista sadico e tendenzialmente depresso che nutre nella vita l’unico scopo di deprimere altrettanto i suoi spettatori, forse per non sentirsi più solo.
Sarebbe un’ipotesi comunque più rassicurante che fare i conti con un male casuale esente da sceneggiatura, che non sceglie i protagonisti e non si raggruma in copioni strappalacrime, con poco da insegnare e senza un impianto morale solido.
Matha Carson (una sublime Vanessa Kirby) è una bellissima giovane donna all’ultimo mese di gravidanza. Ha deciso di partorire a casa, assistita da un’ostetrica che però non si presenterà per un contrattempo, a far nascere il suo bambino sarà una seconda ostetrica, con l’ausilio del preparatissimo partner (uno Shia LaBeouf decisamente poco a fuoco in un ruolo tutto sommato incomprensibile).
E’ un parto complicato dalla gestazione lunga (l’intera scena ricopre l’arco di una mezz’ora buona di pura, magnificente esibizione della sofferenza), il corpo di Martha migra sempre più fiaccato dal pavimento del salotto, alla vasca, al letto senza requie, passa troppo tempo, la bambina non vuole nascere, si pensa di chiamare un’ambulanza ma non lo si fa, l’ostetrica è convinta che serva ancora solo un po’ di pazienza.
E’ stato quel poco in più di pazienza ad essere fatale alla bambina?
Ce lo si chiederà poi in un’aula di tribunale, Martha con i capelli legati e la faccia pulita al banco dei testimoni, l’ostetrica trincerata nel suo rimorso al banco degli imputati.
E’ stato forse quel bicchiere di rosso bevuto qualche sera prima? Il sushi?
Sono domande che non otterranno risposta, perché non ha senso porle, e questo Martha lo comprende rapidamente (in maniera apprezzabilmente fuori da ogni clichè dell’elaborazione del lutto) a differenza del compagno Sean che invece preferisce non cedere a fatalismo del male e attribuire questo ad una fonte certa, che sia tangibile, che sia punibile.
La colpa è dell’ostetrica, questo lui lo sa, per questo arruola un avvocato (pardon, post-sanremo conviene dire “avvocatessa”) per farle causa per negligenza criminale.
(Mi permetto qui di aprire una piccola parentesi: l’attrice che fa l’avvocatessa la si ritrova protagonista del primo episodio di Soulmates, serie recentemente uscita su Prime Video. Al concludersi di questo ella, parlando col marito, rievoca i momenti del parto del primo figlio, avvenuto in casa, rammenta il ritardo da parte del dottore. Coincidenza o easter egg?)
E’ colpa dell’ostetrica dunque, sì. Ma è anche forse colpa di quel bicchiere di vino rosso, del sushi, della scelta naive del parto in casa e dunque non lo si dice ma lo si pensa: è colpa di Martha.
E’ così che si fa a pezzi una donna.
Roma
Un altro prodotto interessante sempre sotto l’egida di Netflix è certamente Roma di Alfonso Cuaròn.
Con la promessa di ritornarci in futuro, tratteggio brevemente la trama: quartiere Roma, Città del Messico, le vite di una giovane donna di servizio e quella della signora per la quale lavora e i suoi figli si intrecciano in un delicato eppure inossidabile vincolo femminile.
Se quella che vediamo messa in scena nei primi minuti di film è la classica dialettica Harmony fra serva bella e buona / padrona cattiva ed invidiosa, prima che scada la mezz’ora la troviamo già sovvertita, quando le due realizzano che non sono e non possono essere vicendevoli nemiche, perché il vero “nemico”, o quantomeno la vera minaccia, è esterna: duole dirlo ma non c’è scampo, almeno in questa pellicola, il “nemico” è l’uomo.
L’uomo che tradisce, l’uomo assente, l’uomo che se ne va.
Di qui, l’insegnamento che la signora può dare alla giovane domestica, stese sul pavimento, il volto della seconda fra le mani carezzevoli della prima, è il seguente: “Noi siamo sempre sole”.
Alla mercè del giudizio degli altri anche Martha apprende che una donna, specialmente nell’ambito della maternità è spesso un’entità sola.
Da sola metterà al mondo una bambina e da sola dovrà fare i conti con l’averla perduta, vittima delle aspettative e delle colpe sottaciute che le attribuisce chi comunque le ha voluto e continua a volerle bene.
Di questa donna, a metà pellicola, non rimangono che coriandoli.
Ma i coriandoli danzano se si alza il vento, creano il carnevale, la neve.
Allora io credo che al di fuori del mondo rassicurante di Scrubs, storie così esistano in fin dei conti, e se certamente non necessitiamo del cinema per approcciare al lato tragico della vita, chè questo si fa da sé, forse comunque abbiamo bisogno che il buon cinema ci educhi al tragico e con esso al post-tragedia quello che succede dopo, che un dopo c’è e che può essere diverso da come ci si prospettava.
Che ci educhi al momento in cui soli, con la nausea per il passato e il rifiuto per il futuro ci si ritrova impossibilitati a tornare indietro ed incapaci di fare un passo avanti, di dire una parola che modifichi seppur di poco la nostra situazione.
Che ci dimostri che invece, in qualche modo, col dolore si impara a convivere e che anche col peso di questo sulle spalle si può andare avanti, e soprattutto che lo si può fare anche da soli.
Senza morali di sorta, senza un frame conclusivo di sguardi persi nel vuoto e musica struggente in sottofondo, si va avanti e basta, per coraggio qualcuno, per inerzia tutti gli altri.
Che quando ci si ritrova fra le mani i coriandoli di ciò che siamo stati tutto quello che rimane da fare è prendere aria dai polmoni, riempirsi le guance e soffiare.
Ammirare il carnevale delle cose andate sparpagliarsi, e con un po’ di coraggio, cominciare a scrivere un’altra pagina.