Avere 16 anni e finire al liceo delle scienze sociali in una classe composta da 3 o 4 entità assimilabili a giovani fanciulli di sesso maschile e, da una restante ventina di femmine, di cui almeno 10 gnocche, non è propriamente quello che augurerei per l’adolescenza di mia figlia.
Il liceo delle scienze sociali è sempre stato un covo di adolescenti acide, in assidua competizione le une con le altre, e, per qualche mirabolante sfiga (mia), con canoni di bellezza decisamente più alti alla media delle altre scuole superiori.
All’interno degli uffici del liceo, dietro alle tendine a rullo beige alla sinistra della grande porta d’ingresso in vetro ed ottone, immaginavo Enzo Mirigliani, patron di Miss Italia e tutta la giuria demoscopica di Salsomaggiore che selezionava e scartava i curricula delle candidate: “Miss targa cecina Si”, “Concorsi di bellezza Si”, “Fotomodella Okay”, “Assidua lettrice e frequentatrice di Biblioteche No”, e cosi via.
In tutto questo, io, come la maggior parte delle adolescenti, mi guardavo allo specchio e mi facevo c-a-g-a-r-e (excuse moi pour les francais, ma, come disse Funari “Se uno è stronzo, non je posso dì stupidino, si crea delle illusioni. Je devi dì stronzo!” e nel mio caso non trovo una locuzione verbale piu calzante dell’evacuazione, pardon ancora).
Non avevo le gambe chilometriche della miss, ne i capelli boccolosi e lucenti di quell’altra, tanto meno il seno prorompente altezza pomo d’adamo di quell’altra ancora, che, giustamente, se ne usciva a cena il sabato sera con dei corsetti d’intimissimi che hanno fatto perdere dei malleoli ad un sacco di camerieri che, alla vista di cotanto bendidio, sbattevano le ginocchia anda e rianda nei tavoli.
In compenso io, avevo le sopracciglia maciullate dalla pinzetta, della gran ritenzione idrica e una pelle diafana apprezzata solo dalle over-50 che mi davano della “bambolina di porcellana” credendo di farmi un gran complimento quando la mia massima aspirazione nella vita era di andar alle Spiaggie bianche, cospargermi di Lancaster e tornare a casa come Beyoncè.
Io, per barcamenarmi in questo contesto di top modelss, compensavo con il make up.
Se ogni mattina un leone nella Savana si alza ed inizia a correre, a Rosignano solvay, ogni mattina Giulia Rossi si alzava e si truccava come Britney Spears. Ogni benedetto giorno che il signore mi ha messo in terra io, andavo in bagno e tiravo fuori la trousse dei trucchi e passavo ore a pitturarmi la faccia.
Non mi limitavo ad un po di ombretto dato male come tutte le liceali che si rispettino: io mi spalmavo sbadilate di ombretti neri e glitter sfumati sulle palpebre e matite nere kajal dentro e fuori dagli occhi e quintalate di rimmel, e smokey eyes a tout a l’heure.
Era il mio modo di difendermi: credevo, truccandomi come una barista di un night club di periferia, di star meglio.
I miei genitori non mi dicevano niente, mia madre è sempre stata sostenitrice della libertà di espressione e come tale, mi ha sempre lasciata libera di esprimere la mia personalità serenamente, senza vincoli alcuni e nessuno mi ha mai rimproverata per gli strati di ombretto nero sotto i quali mi camuffavo e mi nascondevo giornalmente.
Avevo un fidanzato bellissimo al tempo. Stavo insieme a questo super cerbiattone fiorentino, con gli occhi di ghiaccio e le ciglia lunghissime, tipo quelle finte di Elettra Lamborghini, ma le sue erano vere.
La prima volta che abbiamo dormito insieme, mi ero nascosta la matita nera degli occhi nei calzini e, nel cuore della notte, sgattaiolai segretamente in bagno per andare a ripassarmi il trucco (al buio, per non svegliarlo.. chissà che bel lavoro) e cosi facevo ogni santissima volta in cui mi capitava di dover trascorrere molte ore con lui.
0gni bagno di un bar, ogni camerino di un negozio, ogni specchietto di motorino erano occasioni da non perdere per ritirar fuori i trucchi e dare una rinfrescata alla facciata.
Tutto andò avanti per anni serenamente fin quando in quarta superiore avvenne il misfatto: mi alzai una mattina con un occhio semi chiuso ed impiastricciato di una secrezione giallastra.
Avevo preso la congiuntivite. A voi non sembrerà questo gran dramma, in fondo una congiuntivite è una roba da niente che si rivolve con qualche giorno di collirio. Per me era un vero e proprio disastro: quell’insignificante infiammazione per me significava cadere nel baratro del no-make-up: niente ombretto, niente matita, niente mascara, niente espressività, niente Britney, niente di niente.
Me la cavai i primi due giorni restando a casa da scuola, ma poi la dottoressa spiegò a mia madre che il collirio annullava la capacità infettiva e mia madre iniziò a spinegere per farmi rientrare a scuola. Mi agitai eccessivamente, mi arrabbiai, urlai, strillai ma i miei non sentirono ragioni: il giorno dopo dovevo andare a scuola.
La notte non dormì e la mattina mi alzai ed andai in bagno cercando di trovare una soluzione al problema ma la soluzione non esisteva. Mi accompagnava a scuola mio padre e quindi non potevo neanche far brucia. Fui costretta a darmi solo un filo di mascara all’occhio sano e mesta mesta uscii di casa.
Io che, solitamente, a scuola me ne stavo sempre in giro a far della gran caciara a zonzo per la classe e per i corridoi, quella mattina non mi alzai dal banco, se non una volta per andare in bagno.
Uscii dalla classe furtiva sperando di passare inosservata ma mi imbattei in un compagno di classe che si fermò a parlare. Eravamo nella stessa classe da tre anni e ci eravamo parlati mille volte. Questo mi guarda e mi fa:
“Giulia ma hai gli occhi verdi?”
Io diventai rossissima e non sapevo come uscirne e boffonchiai un “ehm…” imbarazzato. Nel mentre arrivò anche un altro ragazzo della nostra classe e l’uno fece all’altro “Oh, ma te lo sapevi che la Rossi aveva gli occhi verdi?”. Pure l’altro si mette a scrutarmi come si guarda un lemure allo zoo e risponde con uno secco “No”. Il primo mi guarda e mi fa “Stai bene senza trucco”, Io ridacchiai fingendomi tranquilla e scappai via.
3 anni. 600 giorni di scuola e questi non sapevano di che colore avessi gli occhi (certamente non stiamo parlando di faine acutissime, ma la cosa aveva dell’incredibile lo stesso).
Era cosi forte il desiderio di camuffare i difetti, che finii per nascondere anche i pregi.
Io mi guardavo allo specchio e vedevo un piccolo mostro con la pelle troppo chiara, il naso troppo grosso, la fronte troppo alta, i capelli troppo sottili, le gambe troppo grosse e le spalle troppo piccole.
Viviamo in un mondo dove fenomeni come il bullismo sono all’ordine del giorno; ma talvolta i bulli più cattivi, i giudici più severi e inflessibili siamo noi.
Perennemente concentrati sui nostri difetti, sulle nostre inperfezioni, sulle inesattezze, sulle nostre unicità .. passiamo ore cercando di nasconderle e camuffarle affinchè nessuno le possa notare.
Oggi ho 35 anni, il naso grosso non è diminuito, anzi con l’avanzare dell’età presumibilmente si allargherà, la fronte tanto meno si è assottigliata, la ritenzione idrica rimane al mio fianco, fedele compagna di disavventure, le spalle son rimaste quelle di una 13enne e non son diventate come quelle della Pellegrini, e il sole continua a schivare la mia pelle come si scanzano le persone che starnutiscono al supermercato durante una pandemia mondiale.. ma alla fine questa sono io, ed è certo che potrei essere migliore, ma come potremmo esserlo tutti peraltro.
La maggior parte di noi combatte le stesse battaglie e, è bene ricordare che, spesso, un punto di forza è solo un difetto che ce l’ha fatta.