Sesta intermittenza
Benvenuti o bentornati in queste pagine. Molti già sanno che, con alcuni valorosi compagni di viaggio, ormai nel lontano settembre 2020, intrapreso l’avventura di un’antologia (a cadenza “stagionale”) di racconti autoprodotta.
Si chiama Ciminiere e al suo interno potete trovare racconti, tutti accomunati dall’essere ambientati nel corso della stagione appena trascorsa. Esempio: il primo numero è uscito a settembre e al suo interno i racconti erano a tema “estivo”.
Colgo la palla al balzo offertami da questo spazio, e il fatto che il primo numero di ciminiere sia esaurito (almeno nella sua dimensione cartacea, l’ebook è sempre disponibile su Amazon) per pubblicare, in versione leggermente estesa, il racconto che scrissi proprio per quella particolare occasione.
Buona lettura!
Sono rimasto solo in casa a domandarmi perché , sono tornato nell’inferno per sapere com’è…
Vi avverto: in quest’episodio, a differenza degli altri che ho raccolto fino ad ora, non imparerete nulla. O almeno, spero che vi siano stati d’aiuto per apprendere qualche nozione in più su questa strana, affascinante e bellissima razza. Comunque, torniamo a noi. C’è una donna, in piedi, che sorseggia vino rosso da un calice. È bellissima. Non più nel fiore degli anni, ma sempre molto attraente. Nella stanza, c’è un letto sul quale sta dormendo un uomo, e…che abbiamo lì? Una culla vuota. Strano, la donna non è incinta. Da quando osservo la scena, nulla si è mosso o ha espresso la volontà di volerlo fare. L’essere umano è bizzarro: più vorrebbe muoversi, e più resta immobile. Bella riflessione: devo appuntarmelo sul taccuino. A volte, mi meraviglio di me stesso.
La donna accende l’abat-jour sul comodino. Come fa una creatura così graziosa a condividere gli spazi con uno così? A occhio e croce hanno la stessa età, ma lui dorme come il vecchio a cui ho fatto visita la settimana scorsa. È una zavorra. È un macigno.
Lei gli si avvicina, scosta il lenzuolo, e si porta sopra di lui. Quest’ultimo continua a dormire, non accenna a svegliarsi. Dal cassetto del comodino, la donna estrae una siringa. Sì, una siringa, avete capito bene. Ma perché? Cosa succede? Gli dà dei piccoli colpetti, dei quali non riesco a decifrare l’utilità. Ditemi: è una loro usanza? Sposta lo sguardo continuamente dalla siringa all’uomo sdraiato. Delle lacrime le coprono la faccia. Appena l’ago entra nel braccio dell’uomo, questi ha un sussulto. Apre gli occhi, la guarda intensamente. Gli manca il respiro, e non fa che emettere dei suoni strozzati. Siamo tornati al punto di partenza: passano alcuni attimi che sembrano eterni. Siamo tornati nel vuoto.
L’uomo riacquista la sua immobilità, e la donna, afferrandogli dolcemente la testa, lo rimette nella posizione di partenza. Dopo avergli chiuso le palpebre, si cambia, toglie una valigia dall’armadio, prende un biglietto aereo dalla cassaforte ed esce dalla casa. Ok. Cos’ è appena successo? Mai e poi mai ho assistito ad una scena simile, eppure sono su questo pianeta da un po’; certe cose dovrei conoscerle, e invece no! Queste creature meravigliose non finiscono mai di stupirmi. Però, se voglio che la storia funzioni, devo mostrare qualcos’altro, non posso finirla qui, non avrebbe senso. È difficile, ma voglio provarci. Mi appoggio all’armadio per riflettere un attimo e…
WOOOOOOOOOOOOOOOOOO! Che botta.
È giorno, sono nella loro cucina e stanno mangiando. Chi? La tipa, il tipo e la loro bambina. Aspettate, una bambina? Sì, una bambina. E dov’era? Sono felici, scherzano e ridono a crepapelle. Non riesco a capire cosa si dicano, il linguaggio umano mi è ancora oscuro. Ho imparato solamente a riconoscere i nomi all’interno dei loro dialoghi: la donna si chiama Gloria, l’uomo Sergio e la bambina Vittoria. Sicuramente però, ho in memoria la canzone trasmessa dallo stereo. Faccio un rapido controllo nel mio database.
Ok, trovata! Si intitola Sinnò me moro, e viene cantata da Gabriella Ferri. Tutto chiaro, ma ne so quanto prima. Posso solo constatare che sia molto orecchiabile. In campo artistico, a queste simpatiche, buffe e fragili creature non possiamo dir nulla: sono anni luce avanti a noi. E sapete perché? Muoiono. Ebbene sì. Non so come, ma anche solo l’idea della morte trasforma un involucro vuoto e piuttosto bruttino come il loro, in una fucina a pieno regime. Ma sto divagando.
Comunque, questo è quello che vedo, un ritratto semplice, di una famiglia semplice, in un contesto semplice, come ne ho viste tante. Ma la ragione di quella scena agghiacciante che ho visto poco fa? Non mi torna e devo scoprirlo se voglio dare un senso a questa storia. C’è una sedia vuota, e provo a sedermi, tanto non mi vedono. Mi siedo e non appena alzo lo sguardo, vedo le figure volatilizzarsi, e prendere delle strane pieghe. Si contorcono, si allungano, si restringono e si deformano in modi che non mi è possibile descrivere in questa sede. Sono davvero buffissimi: riescono a strappparmi più di un sorriso.
Lentamente, le cose sembrano tornare ad una velocità stabile e costante; è di nuovo notte, io sono ancora seduto sulla stessa sedia. Nella casa non è cambiato nulla, ma sento dei lamenti provenire dalla camera. Mi alzo, e cerco di essere delicato nei movimenti. È strano che, nonostante non possano né sentirmi, né vedermi, io abbia iniziato a farmi questi problemi solo osservandoli, sforzandomi di comprendere e fare miei i loro rituali. Ma a che gli serve il linguaggio? Hanno sviluppato una gestualità straordinaria, complessa e ultra stratificata: ma questi parlano, parlano e parlano. Mi chiedo se, effettivamente, non capendo la lingua, io mi perda qualcosa di essenziale. Non lo saprò mai.
Mi dirigo in camera e mi si para d’innanzi una scena ancor più particolare di quella vista in partenza. C’è il solito uomo steso sul letto. Respira lentamente, sembra molto rilassato e tranquillo. Dalla notte scorsa, sembra che abbia guadagnato dieci anni. Ha i palmi delle mani rivolti verso l’alto, ed in quello sinistro stringe una siringa. Ci sono dei piccoli schizzi di sangue sulla coperta e sull’avambraccio. Che ha combinato? Si sente male? Il non capire mi dà ai nervi, e questa situazione sta iniziando a diventare soffocante, e troppo enigmatica. Nel frattempo, le urla si aflievoliscono e si trasformano in piccoli vagiti, quasi impercettibili. Mi volto di scatto, e nella culla trovo la bambina. Ha gli occhi chiusi, ma prova a dimenarsi.
È avvolta nel suo pigiamino bianco: sembra un piccolo batuffolino di cotone. Non so che fare, provo a toccarla, ma i miei arti la trapassano: ora sono intangibile e non posso fare nulla. Apre gli occhi, respira ancora, ma a fatica. Sono accovacciato di fianco alla culla e la guardo, cerco di muovermi per attirare la sua attenzione. Provo a cantarle le canzoni che ero solito cantare ai miei figli, canzoni tradizionali del mio popolo.
Non c’è niente da fare. Sono totalmente impotente. Anche il suo respiro, da impercettibile che era, si trasforma in un silenzio assordante. Il tempo inizia a dilatarsi, e di nuovo mi trovo rapito da questa bolla temporale che sembra non avere fine. Questa volta, però, non sono solo: Vittoria è con me. Le stringo la manina, ma non può sentirmi: non poteva farlo prima, e penso che ormai sia troppo tardi per avvertire la mia presenza.
Trascorso un tempo x, tanto indefinito quanto etereo, sento la porta chiudersi. La donna entra nella stanza e, non appena vede l’uomo in quello stato, sposta subito lo sguardo sulla culla. Indossa una casacca bianca con delle bande verdi laterali. È bellissima nella sua semplicità e nella sua leggerezza.
Getta via la borsa a tracolla, e si mette a terra, sulle ginocchia, accanto a me. Prova a toccare la bambina, cerca di muoverla. Non si dà per vinta e la prende in braccio, prova a cullarla. Le scendono delle lacrime che si fanno più intense ogni istante che passa. Regge il batuffolino alla testa, mentre questa è poggiata alla sua spalla. La rimette nella culla, le chiude gli occhietti e la copre col lenzuolino azzurro.
Il suo volto è una maschera di lacrime, il trucco le è colato trasformandole il viso in una maschera di dolore. Provo ad avvicinarmi un pochino a lei, e cerco di metterle la mia mano intorno alla spalla. Lei, naturalmente, non si accorge di nulla, ma serve a me questo gesto, non a lei. Voglio empatizzare con questa meravigliosa creatura, voglio capire il suo dolore, e voglio condividerlo con lei. Se sopportiamo questo fardello in due, per lei sarà più facile. Credo.
Si gira verso il letto, di sfuggita; è come se non sopportasse quella visione. Si volta di nuovo verso la bambina, e poi sposta lo sguardo sulla porta. In quest’ultimo movimento, i nostri sguardi si incrociano. «Ferma!» provo a gridarle nella mia lingua. Lei non mi sente, ma mantiene lo sguardo sulla porta. Faccio uno sforzo sovraumano, talmente grande che quasi perdo i sensi, ed inizio a scavare nelle sue iridi. I contorni della stanza si fanno indefiniti. Il volto della ragazza emana una luce accecante, che in un batter d’occhio avvolge tutta la stanza e mi cattura. Mi rapisce e io mi lascio rapire.
Le figure iniziano a definirsi, ma non siamo più nella camera. Siamo all’aperto, e stando all’inclinazione degli astri, è passato qualche anno. Davanti a me c’è la ragazza, elegantissima, avvolta in una pelliccia di visone. Tiene per mano un uomo, anch’esso vestito di tutto punto, che indossa un completo scuro. Le mie competenze linguistiche sono rimaste tale e quali. Riesco solamente a distinguere il nome col quale la donna chiama il bambino che gioca davanti a sé: Sergio. Il bambino corre entusiasta verso la coppia e abbraccia le loro gambe. La mamma si china anch’essa ad abbracciarlo, e visto l’esempio degli altri, l’uomo non può tirarsi indietro. Che scena: 3 persone accucciate a terra che si abbracciano, col Duomo di Milano alle loro spalle. Nonostante questo bel quadretto, mi importa solo di lei: è felice, e tanto mi basta.
Mi dispiace per il dolore che dovrà affrontare, ma non posso farci nulla. Il futuro è radioso. Ma perché il bambino ha lo stesso nome dell’uomo nel letto? Ci sono troppi elementi che ancora mi sfuggono di questa strana, incredibile e affascinante razza. Non mi resta che tornare nella camera, abbandonare la spalla della donna, e andarmene. Devo fare rapporto e consegnare il mio raccolto di vissuti settimanale, anche se credo che quest’ultimo me lo terrò per me.
È una storia troppo intensa per finire nella mani di estranei.
Fine