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EP.29 La ricerca della felicità

Prendo in prestito un celebre titolo di Muccino (se non sapete di cosa sto parlando questo articolo può aspettare nel mentre che recuperate il film in questione) per parlare di un altro titolo celebre, forse l’unico di questa annata: Nomadland (Chloè Zhao, 2020).
Ho visto Nomadland come tutti con un anno di ritardo dalla sua produzione targata Searchlight, sezione indipendente della più nota Disney, nel cinema all’aperto della mia città, proiettato sulla parete bianca di un edificio antistante. Delle sedie in plastica bianca, rigorosamente distanziate, potremmo dire che le uniche occupanti under-60 fossimo io, la mia amica, ed altre due ragazze, a noi sole l’arduo compito di abbassare l’età media delle visioni per così dire d’essay.
Va detto che Nomadland è uno di quei film che si può vedere senza alcun problema in lingua originale e senza sottotitoli pur avendo solo nozioni base d’inglese, alla fine del film le parole pronunciate non superano le centinaia. Forse è per questo che prima di andare a vederlo mia mamma si era premurata di farmi sapere che aveva trovato più avvincente un documentario in bianco e nero sui monaci cistercensi, laddove le parole pronunciate erano forse tre, e tutte in latino.
Mia mamma si sbagliava.

Cenerentola nell’area di servizio

 

Al netto del giudizio soggettivo, Nomadland è senza alcun dubbio un prodotto di valore e a suo modo rispetta i canoni fiabeschi che la sua casa di produzione esige dai suoi prodotti: alla fine quando lo si rimastica, quando ne si percepisce ancora il sapore sul palato, ci viene in mente che possa in effetti trattarsi di un film Disney. Non mi riferisco soltanto ai fiabeschi cieli rosa, frutto di una direzione di fotografia  intelligente e senz’altro fortunata, sui quali si staglia a volte pensosa, turbata, timidamente soddisfatta la faccia della McDormand, ma anche al personaggio stesso da questa interpretato, e nel suo viaggio avventuroso.

Fern è una ex impiegata recentemente rimasta vedova. Capelli corti ingrigiti dal tempo e dal dolore, orecchini a cerchietto dorati, indossa tute comode e lunghe vestaglie ospedaliere, non conosce altro panorama che quello offerto dal back yard del prefabbricato nel quale ha vissuto una lunga e serena vita coniugale, fin quando non decide di partire. Parte con il suo van e le poche cose ritirate da un magazzino industriale in una fredda mattina d’inverno: un set di piatti di porcellana, le fotografie.
Moderna principessa vedova, Fern parte per un viaggio negli USA a bordo della sua zucca mai diventata carrozza, incontra la sua fata madrina nei panni di altre nomadi come lei Swankie, Linda May, non le cuciono il vestito ma le insegnano come prendersi cura del suo mezzo, dove scaricare i liquami, come tutelarsi dalle formiche, non hanno bacchette ma thermos di caffè in polvere e tanta esperienza da raccontare. Esperienza vera peraltro, perché i nomadi che vedrete non sono attori ma veri e propri nomadi, quelle a cui assisterete sono testimonianza di vita reale, talvolta drammatiche, talvolta commoventi, talaltra semplicemente buffe.

Zhao e Dormand si sono concentrate prevalentemente su un nucleo di nomadi che si sposta attraverso l’America seguendo Amazon, lavorano per il colosso dell’e-commerce una manciata di mesi, solitamente sotto Natale o in altri periodi di pressione, alloggiano nei siti messi a disposizione da questo per poi ripartire a fine produzione, dedicandosi ad altri impieghi, quanto basta per sopravvivere.
Personalmente ho molto apprezzato l’ingresso un po’ tardivo dei nuovi lavoratori –impiegati delle grandi aziende dell’e-commerce, corrieri, rider per il food delivery– nelle storie per il grande schermo (unico precedente che mi risulti: Sorry We Missed You (Ken Loach, 2019), una storia di burnout ai danni di un corriere francese. Sconsigliatissimo ai cuori fragili e ai figli dei borghesi parcheggiati da anni a scienze politiche che poi si arruolano nelle frange della sinistra radicale. Forse non volete davvero sapere come va la vita degli altri)

 

Into the USA

Nel vederlo forse vi è capitato di rivedere in Fern che attraversa gli USA sul suo van e sulle note di Ludovico Einaudi, Alex Supertramp accompagnato da Eddie Vedder. Il meritato ma inusitato bombardamento culturale di Into The Wild al quale veramente in pochi sono riusciti a sfuggire non può non ripresentarsi sottotraccia nelle lunghe, bellissime sequenze di viaggio e di splendidi panorami, nelle labbra contratte da un rimorso o un timore della nostra protagonista, nell’impercettibile allentarsi delle rughe intorno agli occhi cerulei in un momento di timida serenità.
Di fatto Nomadland eredita la lunga tradizione dei road movie di appannaggio americano, da Easy Rider a Thelma e Louise, sottraendo a questi l’azione, la parola, ed anche lo scopo. Laddove Alex parte in solitudine per fuggire da un contesto sociale e famigliare tossico e consumista e finisce per trovare simbolicamente nella solitudine la felicità di condividere, Fern fugge da una vita ormai finita, consumata dai ricordi che non ha per adesso la forza di rievocare, in cerca di niente, trova nella solitudine la serenità.

Happiness is only real when shared

Non me la sono sentita di deturpare con un punto di domanda questa iconica affermazione, che giunge in maniera del tutto inaspettata a chiudere un film di solitudine e di fuga come Into The Wild. Sappiate comunque che ci sarebbe stato, nelle intenzioni, e dunque, la felicità è davvero reale solo quando condivisa?
Ho trovato davvero brillante (sebbene da padrona di un cane mi abbia frantumato il cuore) la scena del rifiuto da parte di Fern di adottare un cane abbandonato al freddo di una stazione di serivizio, nessun aiutante per la nostra Cenerentola on the road, quella che va scegliendo progressivamente è una solitudine radicale. Non manca tuttavia il rapporto umano: con Swankie, nomade amica, la storia d’amore timido con David, ma in questa storia, come in tutte le altre, sono e siamo tutti di passaggio.
Poiché la felicità forse non le è più accessibile nella sua totalità a causa della morte del marito, quella che Fern sta perseguendo è piuttosto la libertà. La domanda in questo caso dunque non è più se si possa essere felici soltanto nella condivisione, ma se si possa essere liberi senza pagare il prezzo della solitudine.
C’è felicità duratura nella libertà o è solo episodica? La felicità episodica è meno autentica di quella duratura? E se è duratura si può ancora parlare di felicità o si dovrebbe invece ripiegare sul concetto onesto e a suo modo appagante della serenità?
Quella che Fern trova nella libertà è proprio quest’ultima: la serenità.
E in fin dei conti, talvolta può bastare.

Il solito PS

Ho affermato un po’ a mo’ di scoperta dell’acqua calda l’appannaggio americano sul road movie, tuttavia mi sento di segnalarvi all’interno della lunga lista to-watch del genere una produzione italoamericana per la regia di un italiano per eccellenza: Paolo Virzì. Il film in questione è Ella e John, la storia di due anziani coniugi, dei quali il marito malato d’Alzheimer che decidono di trascorrere quelli che forse saranno i loro ultimi giorni insieme in giro per l’America con il loro camper. Tenero, buffo, commovente. Consigliato a tutti gli amanti del genere, e agli amanti in generale.

 

Un bacio paradossalmente sedentario

Francesca

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