Nell’ambito dell’epistemologia novecentesca, anche in relazione ai già trattati problemi dell’induzione e della demarcazione (clicca qui per recuperarli), uno dei temi principali era sicuramente quello di fornire una giustificazione delle base empirica da cui si edifica il progresso scientifico. Il trilemma di Fries, detto anche trilemma di Agrippa o Münchhausen-Trilemma, mostra l’impossibilità di pervenire a una verità che sia assoluta e indubitabile.
Il filo cucito sulla trama del nucleo concettuale sotteso al trilemma di Fries collega, nel tempo, Platone, passando per Artistotele, Cartesio, Kant, ai neopositivisti, poi a Popper, a Kuhn, a Lakatos, a Laudan. La storia del pensiero occidentale ha coltivato a lungo una domanda alla quale si è tentato di rispondere innumerevoli volte.
Come si giustifica la conoscenza?
Sia che si tratti di enunciati protocollari (Circolo di Vienna, Neopositivisti), sia che si tratti di asserzioni-base (Popper), il problema rimane: come è possibile giustificare la conoscenza a cui si perviene? Qual è la base dell’esperienza?
Persino utilizzando la metodologia popperiana del falsificazionismo il problema rimane, poiché queste asserzioni falsificanti (le asserzioni-base) non possono essere giustificate da altre asserzioni, quest’ultime da altre ancora, e così via: si ricadrebbe in un regresso all’infinito.
I problemi riguardanti la base empirica sono dei problemi relativi al carattere empirico delle asserzioni singolari e il modo in cui esse vengono controllate. Sono problemi che riguardano esclusivamente la teoria della conoscenza.
Fries, filosofo e matematico del primo Ottocento, pose il problema in questi termini:
«[…] se le asserzioni della scienza non devono essere accettate dogmaticamente, dobbiamo essere in grado di giustificarle. Se richiediamo una giustificazione per mezzo di argomentazioni basate sul ragionamento nel senso logico, allora ci impegniamo ad accettare il punto di vista secondo cui le asserzioni possono essere giustificate solo da altre asserzioni. L’esigenza che tutte le asserzioni debbano essere giustificate logicamente […] è pertanto destinata a condurre a un regresso all’infinito. Ora, se vogliamo evitare il pericolo del dogmatismo così come vogliamo evitare quello del regresso all’infinito, sembra che l’unica via aperta sia quella del ricorso allo psicologismo, cioè alla dottrina secondo cui le asserzioni possono essere giustificate non soltanto da altre asserzioni, ma anche dall’esperienza percettiva». – Popper, La logica della scoperta scientifica
Questo è il trilemma di Fries: dogmatismo, regresso all’infinito o psicologismo.
Fries e gli altri epistemologi del tempo, di chiaro stampo empirista, optarono per lo psicologismo: si ha “conoscenza immediata” dell’esperienza sensibile e, attraverso questa, si giustifica la “conoscenza mediata”, conoscenza espressa nel simbolismo di un qualsivoglia linguaggio e della quale fanno parte le asserzioni della scienza.
In quest’ottica è chiaro che l’esperienza percettiva è la sola fonte di conoscenza di ogni scienza empirica, e che tutto ciò di cui si è a conoscenza sul mondo è “traducibile” sotto forma di asserzioni intorno alle nostre esperienza. Per Fries e gli altri epistemologi a lui contemporanei, l’impresa scientifica non era altro che «un tentativo di classificare e descrivere questa conoscenza percettiva, queste esperienze immediate, la cui verità non possiamo mettere in dubbio; è la presentazione sistematica delle nostre convinzioni immediate».
Tale psicologismo, in una forma più moderna, si ripresentò anche nel primo Novecento, tra i neopositivisti, i quali non fecero altro che spostare il problema dall’esperienza e dalla percezione agli enunciati protocollari. Infatti, ammettendo che questi ultimi servivano da termine di paragone per le asserzioni scientifiche, in modo da verificarle o meno, e che non avevano a loro volta bisogno di conferme, si dava per punto fermo che gli enunciati protocollari si riferissero al “dato”, cioè ai “dati di sensi”.
Per Popper non ci si poteva affidare così completamente all’esperienza, ma c’era bisogno, data l’inesistenza di osservazioni pure, non-teoriche, di un insieme di regole metodologiche che potessero revisionare le esperienze percettive, o gli enunciati protocollari, in modo da poterli accettare o rifiutare.
Popper, dopo aver scartato lo psicologismo, tentò di risolvere il trilemma di Fries adottando una soluzione che stava a metà fra il dogmatismo e il regresso all’infinito. Egli ammise la necessità di arrestare la giustificazione a delle asserzioni-base che funzionassero come pietra di paragone per le teorie, desistendo dal giustificarle mediante ulteriori argomentazioni ed evitando così il regresso all’infinito. Ma era altresì convinto dell’innocuità di questa forma di dogmatismo, poiché nulla vietava che in futuro si sarebbe potuto proseguire in questa discesa giustificativa delle asserzioni-base.
Sostanzialmente, nella prospettiva popperiana, è un processo che dal punto di vista logico può andare avanti all’infinito, ma di fatto ci si può fermare a un livello che permetta alla struttura della scienza di essere solida. In questo senso Popper riconobbe alle asserzioni-base il loro carattere dogmatico.
Come era già successo affrontando il problema dell’induzione, quella del filosofo austriaco sembra più una dissoluzione che una soluzione. Tuttavia stavolta è quantomeno una dissoluzione più “impercettibile”, tanto per rimanere in tema.