La Prima alla Scala 2021 riporta l’attenzione sul difficile rapporto tra forme culturali e tempo della loro fruizione. Esiste una terza via tra musealizzazione e attualizzazione a tutti i costi di ciò che per natura è inattuale?
Prima alla Scala: il Macbeth di Verdi
È andata in scena da pochi giorni la Prima della Scala e, visto che le impressioni che ho avuto a caldo si sono leggermente intiepidite, mi pare il momento giusto per spenderci sopra qualche parola. Come saprete, l’opera che quest’anno è stata scelta per l’apertura della stagione scaligera è il Macbeth di Verdi. Terzo titolo del catalogo shakespeariano di Giuseppe Verdi, l’opera venne originariamente rappresentata al Teatro alla Pergola di Firenze nel 1847. Il cast scelto per l’allestimento corrente è – ça va sans dire – di altissimo livello: Luca Salsi (Macbeth), Anna Netrebko (Lady Macbeth), Francesco Meli (Macduff) e Ildar Abdrazakarov (Banco), per la regia di Davide Livermore e la direzione di Riccardo Chailly.
Non mi arrischierò in giudizi sulle esecuzioni vocali e orchestrali, non avendo di certo le competenze necessarie per dire qualcosa di sensato. Vorrei però fare alcune osservazioni sul lavoro nel suo complesso. Lo dico fin dall’inizio: l’opera non mi ha entusiasmato; anzi, tra quelle che ho visto finora – quest’anno era la mia “quarta Prima” (tutte viste rigorosamente in tv) –, forse è quella che mi è piaciuta di meno. Partiamo però dai meriti.
Livermore ha fatto anche cose buone
Non si può negare come, forse per la prima volta, si sia data reale importanza alla fruizione televisiva, creando una sorta di spettacolo nello spettacolo dotato di una propria specificità. Finalmente si sono utilizzate tecnologie di questo secolo (anche se rimprovero la mancata diretta in 4K), che hanno reso la prima della Scala una vera opera multimediale live, o addirittura “post-mediale”, considerato il riuscito tentativo di convogliare mezzi e tecnologie diverse in un’unica costruzione audio-visiva.
Bella a tal proposito la scena del sonnambulismo di Lady Macbeth, in cui una vertiginosa proiezione verticale mostra una strada trafficata su cui la Lady sembra si stia sporgendo pericolosamente, mentre cerca di pulire le mani da un sangue inesistente.
Ma come in tutte le cose ci vuol misura, e il rovescio della medaglia forse è stato proprio un sovraccarico visivo, spesso più fine a se stesso che funzionale alla rappresentazione. Le proiezioni e le scenografie rischiano di finire per assurgere a veri protagonisti, lasciando talvolta i personaggi in secondo piano.
Un tentativo di critica
Veniamo quindi al nocciolo della critica. Accennavo sopra a un’autostrada trafficata. Beh, ovviamente niente di tutto questo è presente nel Macbeth di Verdi o di Shakespeare.
C’è stato infatti un enorme tentativo di attualizzare e rendere contemporanea l’opera, che infatti inizia con Macbeth e Banco che, alla stregua di due gangster, tornano in macchina vittoriosi dall’ultima sanguinosa scorreria.
In generale le atmosfere sono di tipo distopico–post-apocalittico, mutuate direttamente dalla cinematografia (i riferimenti più palesi sono a Metropolis di Lang e a Inception di Nolan).
Un Macbeth del XXI secolo?
Macbeth è dipinto come un magnate potente e autoritario, forse uno spietato tycoon delle costruzioni, visto che scorgiamo nel suo salotto un modellino di qualche progetto futuribile. Il simbolo del proprio potere è il grattacielo in cui abita, che a un certo punto leggiamo chiamarsi “Scottish Court Tower” (forse un goffo espediente che, qualora ci stessimo perdendo tra le varie giravolte narrative, dovrebbe ricondurci all’opera che stiamo guardando).
E quindi? Cosa dovremmo capire? Che tipo di potere stanno agognando i Macbeth? Quale storia si vuole raccontare? Forse tutte e nessuna. Il problema secondo me sta proprio qui. C’è uno sfasamento evidente tra spettacolo e discorso musicale, che alla fine si ripercuote sulla narrazione stessa. Si è voluta mantenere un’estrema fedeltà al libretto, che però ha prodotto una drammaturgia estrinseca a quella verdiana, con evidenti e stranianti incongruenze.
Le incongruenze
Quelle più palesi: come coniugare un racconto che pretenderebbe di svolgersi nella contemporaneità (se non nel futuro) con scene quali i duelli con le spade? Oppure le scene delle streghe, fondamentale elemento “propulsivo” della narrazione, perché con i loro vaticini influenzano profondamente l’agire di Macbeth. Vediamo che all’inizio vengono rappresentate come gente che si aggira sotto il cavalcavia di una tangenziale; nel terzo atto sembrano invece impiegate o collaboratrici domestiche. Ma dove va a finire la componente fantastica e sovrannaturale, che dovrebbe quantomeno legittimare il pronunciamento delle profezie?
Insomma, elementi come questi secondo me indeboliscono e rendono meno credibile il lavoro nel suo complesso, che per stare in piedi dovrebbe almeno avere una coerenza interna.
Considerazioni finali
È evidente che con la messa in scena di quest’anno si è voluta fare una grossa operazione di svecchiamento e di avvicinamento al grande pubblico. Si è osato, rischiando quasi la blasfemia proprio nel tempio della lirica. E questo, almeno in linea di principio, è apprezzabile. Ma la domanda che mi pongo è: ce n’era davvero bisogno? Va davvero a vantaggio del pubblico essere blandito con mezzi che nascondono un nemmeno troppo sottile paternalismo da parte di chi si considera l’élite? È davvero di qui che dovrebbe passare una reale democratizzazione dell’arte e della cultura? Attraverso una fruizione sempre facilitata, accattivante, rapida, cool, che strizza l’occhio agli appetiti immediati e irriflessi?
Se partiamo dal presupposto che il teatro e la lirica sia roba vecchia/per vecchi, e che utilizzino un registro comunicativo ormai sorpassato, abbiamo già perso in partenza. In un’epoca in cui il nuovo diventa obsoleto ancor prima di finire di essere realmente tale, ciò che in apparenza resta fuori dal contemporaneo, ai margini delle mode passeggere, assume ancora più valore, e andrebbe tutelato. Se abbiamo perso la capacità di essere porosi ad alcune forme d’arte, la colpa è senz’altro nostra, e lo sforzo dovrebbe essere inverso: siamo noi che dovremmo innalzarci verso l’arte, e non quest’ultima degradarsi per adattarsi a noi. Altrimenti si svuoterebbe di senso, e di quella preziosa attualità dell’inattuale resterebbe solo paccottiglia da quattro soldi.
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