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EP.37 Perchè ci siamo lasciati

Quando è l’ultima volta, sotto sotto lo sai.

Quando chiudi per l’ultima volta la porta di casa alle spalle, una parte di te sa già che quella è l’ultima volta che vedi quell’appartamento, che lasci il cappotto sul divano quando ti hanno detto cento volte che esiste un appendiabiti. Lo sai, seduta al tavolo per l’ultima, silenziosissima cena, che quella è l’ultima cena. Sai anche che è l’ultima volta che fate l’amore, l’ultima sigaretta che fumi dopo. Ne fumerai altre, con altri corpi a fianco e non potrai fare a meno di pensare a tutte quelle che hai spento con quell’altro corpo accanto, quello che hai lasciato indietro più o meno colpevolmente, e a volte ti dispiace e a volte no.
Sai anche, altrettanto colpevolmente, che nessuna di queste ultime volte sarà l’ultima-ultima: seguirà infatti la parata pietosa di messaggi alle tre di notte, qualche scopata di vicendevole (com)passione, qualche ripensamento epico-cavalleresco che ha di autentico solo la paura di rimanere da soli.

Non quella di perdere l’altro, ma di perdere tutto quello che l’altro ti dava.

 

Tutta questa lagnosa introduzione per dire che: in questo ultimo mese ho visto tanti bei film, italiani soprattutto, e fra questi ce ne sono due di cui voglio parlarvi oggi, perché si sposano perfettamente col tema di cui sopra, ovvero, la fine di una relazione: Lasciarsi Un Giorno a Roma (Edoardo Leo, 2021), disponibile ora su Sky, e L’Ospite (Duccio Chiarini, 2018), reperibile su Prime Video.

Ambedue i film, che godono di due splendide colonne sonore, si pongono nell’ottica del “ritratto generazionale” della crisi di coppia, che non è più la crisi alla Ultimo Bacio (Gabriele Muccino, 2001), fra tradimenti e moti di libertà, ma una ben più sfumata e meno comprensibile spesso basata su scelte professionali di varia natura, fra quelle che si vorrebbero fare e quelle che per contingenze ci si ritrova a fare, tutto questo nella profonda discrepanza fra ciò che voleva dire essere adulti un tempo, e quello che dovrebbe dire esserlo adesso.
Insomma, se nel film di Muccino il problema del protagonista, era la necessità d’evasione da una vita già cristallizzata nel trittico casa-famiglia-lavoro, la questione ora riparte dal mantenerla una casa, formarla la famiglia, e soprattutto trovarlo, un lavoro.

Lasciarsi un giorno a Roma

“Tu fai finta che è normale/non riuscire a stare più con me” cantava Fabi nell’omonima canzone Lasciarsi Un Giorno A Roma per la quale la sottoscritta è in grado di commuoversi anche al centoventitreesimo ascolto.

Nel film di Edoardo Leo, Tommaso (nuovamente, Edoardo Leo), scrittore per scelta ed estensore di una posta del cuore per questioni schiettamente venali, viene a sapere attraverso una lettera inviata a quest’ultima dalla fidanzata Zoe (Marta Nieto) che lei non lo ama più e che è in procinto di lasciarlo, dopo dieci anni di convivenza. Di qui segue un moderno carteggio digitale fra Zoe e “Gabriel Garcìa Marquez” (questo lo pseudonimo con cui Tommaso risponde alle persone che si rivolgono alla posta del cuore) che mira a risanare la relazione procedendo per punti di disaccordo, giocando sul fatto che Zoe ignora totalmente che Tommaso e Marquez, quindi l’uomo con cui dorme e quello che le dà consigli “da esterno” sulla sua relazione siano esattamente la stessa persona.


Alla colonna sonora malinconica, sempre presente a supporto delle scene di pathos, si aggiungono riferimenti letterari espliciti dal già citato Marquez a Calvino, fino ad alcuni sottaciuti come Proust, in presenza talmente massiccia che mi sono chiesta se anche Edoardo Leo fosse uno di noi che con la laurea in lettere non ha saputo che altro farci se non infarcire qualsiasi suo discorso di citazioni ai più incomprensibili.

Risposta: cvd.

Un errore di distrazione

Se il film precedente si avvale del repertorio musicale di Fabi, la colonna sonora di questo porta la firma di un altro artista porto sicuro di ogni crisi personale, Brunori Sas (anche presente personalmente nel film) col brano “Un errore di distrazione”.

Cambia qui l’assunto della narrazione: laddove il film di Edoardo Leo riporta le fasi di una crisi di coppia e il tentativo commovente di tenere insieme i pezzi, quello di Chiarini parte da una crisi già consumata ed una fine già decisa, che porta il protagonista, Guido (Daniele Parisi) ad andarsene dalla casa che occupava insieme alla fidanzata e a latitare fra divani di case di amici e la cameretta nella casa dei genitori e ad osservare da ospite, per l’appunto, le dinamiche che regolano la vita di coppia per poi giungere alla conclusione che tutte le coppie, anche quelle felici, sono a loro modo disfunzionali.

E quindi a chiedersi perché, dato questo assunto, qualcuno riesca ad arrivare al traguardo, se mai ce ne fosse uno, qualcuno si fermi alla partenza, e qualcuno decida più o meno incomprensibilmente di lasciare la corsa a metà della gara.

Il senso di una fine

Perché uno scelga di lasciare la corsa a metà della gara in realtà è un concetto incomprensibile solo a chi invece continua a correre e in qualche maniera nel premio alla fine ci sperava ancora, non resta poi che superare lo sbigottimento iniziale e arrendersi all’evidenza dei fatti che la staffetta non la si può correre da soli, e che nessuno è davvero tenuto a raccogliere per sempre il nostro testimone.
Io quale sia il senso di una fine non lo so, posso propinarvi qualche frase fatta da rivista rosa sul valore dell’indipendenza e sulla ritrovata libertà, ma che fare quando invece non si desiderava affatto essere liberi?
Forse è questa l’unica soluzione: prendersi del tempo, ascoltare buona musica, leggere bei libri (a proposito, mai provato Marquez?), guardare bei film (questi due sopra ne sono fulgidi esempi), tutti modi per cercare un modo di difendersi/ una ragione per pensare a sé, o semplicemente avere fiducia e aspettare che le cose/che ogni cosa/ si aggiustasse da sé.

 

Solito PS

Come Edoardo Leo, anche io non ho altra valvola di sfogo per la mia laurea di difficile interpretazione in termini di utilità che infarcire ogni mio discorso di citazioni, per cui se i film non bastassero a tamponare solitudine e disperazione, ecco due consigli letterari di diversissima natura. Perché ci siamo lasciati, da cui prende il nome l’articolo di oggi, è in realtà il titolo di un libro di Daniel Handler (aka, Lemony Snickett, aka l’autore di Una Serie Di Sfortunati Eventi) pensato per gli adolescenti ma capace di parlare a tutti; Il senso di una fine è invece un esiguissimo (in termini di spessore prettamente fisico) romanzo di Julian Barnes che si propone proprio di indagare il seguente interrogativo, e, ottimisticamente, di rispondervi.

Magari qualcuno ci riesce.

Baci emancipati

Francesca

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