Sul tardo pomeriggio di ieri, tornando dal supermercato in macchina ho sentito alla radio un fatto di cronaca nera: un uomo in Sicilia avrebbe ucciso la famiglia del cognato (questo, la moglie e i due figli) e poi si sarebbe a sua volta ucciso con un colpo di arma da fuoco. Questioni di eredità, pare.
Quando si uccidono più persone nello stesso evento si usa il termine strage che evoca sempre qualcosa di massiccio e di forte impatto emotivo, infatti la prima cosa che fa l’ascoltatore medio di fronte a questi fatti è scuotere la testa, trasalire per i più sensibili. La seconda cosa cosa che fa solitamente è cambiare stazione e dimenticarsene al primo successo radiofonico. Questo succede se si è ascoltatori qualsiasi, passivi alla parte di vita che non ci riguarda, e la sottoscritta ci si iscrive senza ulteriore indugio.
Quello che succede invece quando assisti ad un fatto del genere e hai la sensibilità di Damiano e Fabio D’Innocenzo invece, è che finisci a farci un gran film, anzi tre.
Dopo La terra dell’abbastanza (2018) film d’esordio dei due, consacrati al Grande Pubblico (dove per Grande Pubblico si intende la modestissima platea di avventori che purtroppo ad oggi ancora raccolgono nelle sale) con Favolacce (2020), del quale avevo già parlato in uno dei primissimi episodi di questa rubrichetta, oggi parliamo del loro terzo e ultimo film di recente approdato nelle più piccole sale dei vostri cinema: America Latina.
America Latina
First things first, la trama: Massimo (Elio Germano) è un dentista professionalmente affermato che conduce un’esistenza apparentemente idilliaca attorniato dalle giovani donne che formano la sua famiglia, una moglie amorevole e premurosa, due figlie belle, biondissime e talentuose.
Alla gabbia dorata della villa che custodisce silenziosamente i suoi inquilini si aggiunge quella ferrea e ben meno idilliaca della psiche del dentista, dominata da lapsus mnemonici e momenti di forte dissociazione che gli rendono difficile se non impossibile distinguere la finzione dalla realtà, e quale e quanta parte abbia giocato nella costruzione di quest’ultima.
Il che potrebbe essere un bel problema, se poi basta scendere le scale dello scantinato e accendere la luce per scoprire un’ulteriore gabbia, col sospetto che questa volta i carcerieri potremmo essere noi.
E allora il punto è: quanta parte del reale siamo disposti ad ignorare per sopravvivergli?
La poetica delle piscine
Quella dei D’Innocenzo è una poetica fatta di cronaca nera e sostrato favolistico, del ronzio di sottofondo di radio e televisioni, è la poetica delle piscine delle case d’inverno, quando non servono a nessuno e nell’acqua galleggiano foglie secche e insetti morti.
Ed è una poetica soprattutto fatta di luoghi al confine fra il reale e l’onirico, il fascino e la profonda inquietudine (che la colonna sonora firmata dai Verdena asseconda magistralmente), ed è per questo che al fianco di Elio Germano è doveroso annoverare fra i protagonisti della storia la villa stessa in cui vivono i personaggi, scovata chissà dove nel suolo laziale di questa penisola, un po’ Sunset Boulevard, un po’ piscina comunale dismessa.
Al guscio formidabile di questo gioiellino di kistch futuristico si contrappone dunque quello rotto –che figura peraltro nella copertina- del cranio del protagonista, della sua mente che come la casa indora e occulta, protegge e soffoca, a conferma del fatto che il cinema dei D’Innocenzo non è solo mero sforzo estetico, ma incessante accanimento psicologico.
L’ambientazione, non meno che la storia nella sua interezza, a livello quantomeno scenografico se non direttamente poetico sembra risentire dell’influenza di Dogtooth, pellicola datata 2009 e firmata da Yorgos Lanthimos, del quale i D’Innocenzo sembrano ereditare, affatto passivamente, la vocazione al grottesco, l’interesse esistenziale per la cattiveria umana e al mistero inviolabile che questa racchiude per sua definizione.
E allora ecco, non c’è qualcuno in Italia che facciano quello che fanno i D’Innocenzo, che raccontino le loro storie, che poi sono anche le nostre storie con la raffinatezza visiva e uditiva (laddove i suoni son sempre chiacchiericcio o silenzio) di questi due incredibili cineasti.
America-Latina
Dandoci infine ad un po’ di deissi (con “deissi” in linguistica si designano le espressioni presenti all’interno di una frase che facciano riferimento alle persone che emettono un enunciato o, nel nostro caso, alle coordinate di spazio e tempo) Fabio e Damiano D’Innocenzo giocano con astuzia la carta estemporaneità, collocando una storia verosimile in una location geograficamente enigmatica, in un tempo presente che però non assomiglia al nostro, non è dettato dalle incombenze del quotidiano (si veda quelle lavorative, gli impegni dei figli), anzi, il quotidiano si manifesta per rapide incursioni per poi dileguarsi rapidamente, rintanarsi nel cono d’ombra che sembra diventare il mondo esterno a confronto con l’idillio del focolare casalingo. Almeno fin quando quel silenzio ovattato che accoglie le stanze non comincia a sembrarci sempre meno rassicurante, e sempre più inquietante, almeno finchè non ci accorgiamo che il rosso cangiante delle piastrelle in cucina è di fatto un rosso sangue.
I D’Innocenzo, si capisce, sono dei veri e propri maestri del “dove e quando” , laddove “quando” è il tempo del “c’era una volta”, e “dove” è sempre “in una terra non molto lontana…”, insomma, è la deissi delle favole, anzi, delle Favolacce.
Baci inquietati,
Francesca.